Revisione tra storia e politica
In generale la "revisione" culturale e' una tendenza naturale e un sacrosanto diritto di ogni generazione di studiosi, ricercatori o teste comunque pensanti, che non vogliono rinchiudersi nell'eterno compitino di ricopiatura e chiosatura dei sacri testi. L'esigenza di revisione nasce dall'acquisizione di nuove informazioni, dall'affermazione di nuovi paradigmi teorici, dalla necessita' di riconsiderare continuamente il patrimonio culturale ereditato alla luce dei nuovi problemi del presente e del futuro.
Altrettanto naturale e' che le vecchie élites intellettuali e dirigenti oppongano la propria resistenza a tale tendenza, sia per ragioni ideali che di difesa del proprio potere e prestigio istituzionale ed accademico. Ma del tutto eccezionale e' la virulenza con cui oggi reagiscono a qualunque accenno di ridiscussione dei canoni consolidati di interpretazione della storia contemporanea. Si e' caricato il termine "revisionismo" di ogni connotato negativo, si e' banalizzato il concetto per poterlo assimilare a "neo-nazista" ed in qualche occasione si tenta di dar vita ad una nuova caccia alle streghe. Naturalmente l'opera di demonizzazione, soprattutto nei mass media, risulta facile se si circoscrive tutto alla polemica sulle cifre dell'"olocausto". Ma e' proprio la violenza della reazione a dimostrarci che il revisionismo apre una possibilita' di critica radicale dei fondamenti culturali del nostro tempo, a partire dal muro di false certezze eretto dalla storiografia.
La verita' e' che la storia inchioda il presente al passato e quindi impedisce un futuro alternativo all'esistente. Che la storia sia uno strumento del potere lo sappiamo da sempre, ma ce ne dimentichiamo regolarmente. Che la storia non sia obiettiva anche questo lo sappiamo da sempre, ma continuiamo ad aver bisogno di sentirci inseriti in una catena di eventi che ci precedono e di altri che si prevedono, per riuscire a superare l'angoscia della nostra finitezza personale. Per questo i miti storici hanno un potere cosi' grande su di noi: per questo da cinquant'anni siamo inchiodati al mito della grande guerra patriottica ed antifascista dagli Alleati nel 1945. (1)
E' questo il mito fondante, quello che non si puo' discutere: perche' sulle sue spalle avanza oggi, in modo apparentemente irresistibile, la legittimazione dell'egemonia americana. Gli USA rappresentano la punta piu' avanzata del modello economico, sociale, culturale, politico, al quale l'Occidente vuole omologare l'intero pianeta. Questo modello si e' affermato sconfiggendo i suoi antagonisti, nella seconda guerra mondiale e nella guerra fredda, e da vincitore ha imposto la "sua" storia. Ancora oggi la rassicurante narrazione del giusto trionfo della democrazia sui regimi totalitari e' intoccabile e detta i confini della politica internazionale nei suoi punti caldi: egemonia economica-politica-militare degli USA, difesa ad oltranza dello Stato di Israele, diffidenza per il ruolo della Germania. L'Italia, che ha cessato di essere una nazione l'8 Settembre 1943, e per cinquant'anni e' stata una colonia americana, oggi si trova a dover scegliere. I liberal-liberisti del Polo sono critici del fatiscente Stato assistenziale, teorizzano la flessibilita' e il libero mercato, e ci propongono appunto il modello americano, travestendolo da rivendicazione di sovranita' nazionale contro un'Europa ad egemonia tedesca: "oggi liberta' in Europa significa liberarsi dall'annessione culturale e politica della Germania e dai suoi errori, che da almeno un secolo portiamo, generazione dopo generazione, sulla pelle". (2) Qui la difesa del mito storico della grande guerra antifascista e' parte integrante e funzionale di un progetto politico.
Piu' difficile da spiegare e' la difesa che ne viene fatta nell'altro campo, all'interno della sinistra. Questa, dopo aver celebrato e praticato l'unita' antifascista, come scelta imposta dalle esigenze di politica internazionale dell'Unione Sovietica, ha poi dovuto partecipare a quarant'anni di guerra piu' o meno fredda fra i due protagonisti dell'alleanza e vincitori, che erano non solo due potenze in lotta per l'egemonia mondiale, ma due sistemi ideologici totalizzanti, in competizione per il dominio sulla sfera noologica umana. Quando poi si e' registrato il crollo clamoroso di uno dei contendenti, quello per cui parteggiavano, subito si grido' alla fine delle ideologie. Ma e' rimasto deluso chi si aspettava finalmente una ridiscussione critica dei concetti, delle idee che avevano dominato per mezzo secolo, delle "parole-padrone" (Destra/Sinistra, Capitalismo/Socialismo, Fascismo/Antifascismo ecc.) che operavano le distinzioni/opposizioni fondamentali che davano forma e senso all'universo politico. Eppure, gia' prima del crollo, ci si poteva chiedere:
"non sta accadendo forse che le parole padrone dei nostri vocaboli politici dominanti divengono sempre di meno parole che fanno riferimento ai fenomeni effettivi, e sempre di piu' parole mistero (che si crede siano esplicatrici quando invece sono proprio esse a dover essere spiegate), parole spettro che si impongono come realta' e che occultano in questo modo le cose reali". (3)
I vincitori dell'89 hanno subito proclamato la fine della storia, i vinti si sono affrettati a rimuovere il loro passato, per arruolarsi velocemente sotto le nuove bandiere di un pensiero unico genericamente progressista e democratico. In fondo non e' stato difficile per chi, da anni, era abituato a recitare la parte verbale del contestatore e fustigatore del sistema, mentre veniva ripagato dallo stesso con quote di partecipazione al potere, ruoli di egemonia culturale, prebende accademiche. Venuto meno lo scenario internazionale che permetteva questa comoda posizione, il re si e' denudato: nelle nuove condizioni ambientali, la cultura di sinistra non si e' evoluta in una nuova specie, ma ha riprodotto un ibrido, che sta col cuore in USA ma sceglie politicamente di schierarsi colla Germania, il cui modello di capitalismo assistenziale e' piu' adatto alla conservazione della specie "sinistra tradizionale". Si e' conclusa una vicenda che era probabilmente insita nel patrimonio genetico della cultura di sinistra, che ha ritrovato nel passaggio dal PCI al PDS la realizzazione del proprio progetto:
"Anche sul piano culturale il PCI e' andato alla ricerca della legalita'. Un'operazione difficile ed insieme difficilmente evitabile... Prendendo le distanze da Marx, con l'intento di differenziarsi da un pensiero troppo eversivo e pericoloso agli occhi della cultura democratico-liberale, il PCI non poteva simpatizzare con le forze culturali, anche di primaria importanza, che in vari modi mettono in questione la logica della democrazia. E poiche' e' largamente accreditata la tesi che struttura e sorte delle moderne democrazie parlamentari siano strettamente legate a quelle della scienza e della tecnica moderne, il PCI ha dovuto mostrare l'estraneita' della propria vocazione cultuale non solo rispetto alle varie forme di critica alla civilta' occidentale, ma anche alle critiche rivolte da piu' direzioni alla conoscenza scientifico-tecnologica. La legalita' culturale a cui mirava il PCI, e che presumibilmente si prolunga nel PDS, consisteva dunque nella difesa argomentata dell'ordine democratico e del sapere scientifico, e nel rifiuto di tutto cio' che poteva sembrare avventura politica e culturale, "irrazionalismo". E' all'interno di questa dimensione che, per differenziarsi dagli altri partiti, il PCI ha parlato del carattere "forte" del suo riformismo". (4)
Si e' cosi' realizzata veramente la fine della storia, perlomeno della riflessione sulla storia: si e' congelato il pensiero, condannando all'espulsione dall'universo del discorso legittimo qualsiasi posizione critica dei paradigmi dominanti, bollata come eretica. E il discorso eretico viene semplicemente ignorato, definendolo di volta in volta "pseudo-scientifico", "pseudo-storico", ed esimendosi cosi' dall'onere della replica.
"La regola implicita... e' la seguente: ogni famiglia di pensiero che non sia nel campo di legittimazione aperto nel XVIII secolo dalla filosofia dei Lumi, va considerato inesistente". (5)
Arriviamo cosi' al cuore del mito e del paradigma moderno occidentale. Razionalita' tecnico-scientifica e fede nello sviluppo hanno alimentato il grande mito ottimista del progresso, nel quale oggi la sinistra trova l'ultimo rifugio (ma anche la destra tradizionale, appena "sdoganata", ha dimostrato uguale ansia di omologazione), proprio nel momento in cui si accumulano i fatti ed i dati che dovrebbero rovesciare questo ottimismo.
Paradigma industrialista e limiti dello sviluppo
Da molto tempo si parla della "crisi dell'Occidente"; continui aggiornamenti ci illustrano nuovi aspetti quantitativi o qualitativi di questa crisi: crisi dei valori, crisi economiche, degrado ambientale, caduta culturale, ecc. Eppure a livello dell'agire politico ma anche del linguaggio comune dell'informazione non si tiene alcun conto dei dati critici, cosi' abbondantemente forniti: continua invece a circolare un irrazionale ottimismo che fa sperare in una soluzione razionale-scientifica di tutti i mali che affliggono le societa' industriali e quindi l'umanita' intera. Gia' l'idea di "umanita'" come unita' e' priva di fondamento, la differenza tra le condizioni di vita degli abitanti dei paesi industrializzati e quelle dei paesi sottosviluppati e' grandissima e tende ad aumentare. I paesi industrializzati in cui vive il 20% dell'umanita', consumano l'80% dell'intero prodotto lordo mondiale e producono il 90% dell'inquinamento globale. Questa radicale sperequazione e' inoltre destinata ad aumentare col raddoppio della popolazione. Poiche' la crescita demografica si realizzera' tutta nel cosiddetto Sud del mondo, il rapporto diventera' insostenibile: se oggi e' di 1 a 4, allora sara' di 1 a 9, un ricco contro nove poveri. Non ci si puo' illudere di risolvere il problema con le politiche migratorie: in ogni caso le quote di immigrati che possono essere accolte nei paesi ricchi sono tali da essere sufficienti a scatenare gravi tensioni e conflitti nei paesi di accoglienza, ma del tutto irrisorie rispetto alle dimensioni della popolazione dei paesi poveri. D'altra parte l'idea stessa del raddoppio della popolazione e' un'idea di crisi: secondo i piu' recenti calcoli del "Population Institute" di Washington, se non verra' fatta una radicale politica di controllo delle nascite, nel 2015 sulla terra si potrebb-ero raggiungere i 14 miliardi di abitanti ed il risultato "sarebbe una 'fine del mondo' ambientale nel XXI secolo". (6)
L'allarme per la crescita iperesponenziale della popolazione era gia' stato lanciato alla fine degli anni '60. Lo scarso impegno sul terreno della pianificazione demografica, addirittura una politica contraria nell'epoca reaganiana, ha permesso da allora la continuazione del processo secondo i suoi ritmi naturali. Allo stesso modo sono gia' scattati i meccanismi altrettanto naturali e previsti di equilibrio: epidemie, carestie, esplosioni di aggressivita'. Secondo i rapporti delle Commissioni Speciali dell'ONU, dell'UNICEF e dell'Organizzazione Mondiale della Sanita'
"tutte le malattie epidemiche che credevamo debellate stanno facendo la loro ricomparsa... Il problema capitale e' il seguente: gli organismi e i medici incaricati della battaglia contro le epidemie confessano la propria impotenza. Non vi sono soccorsi ne' risorse possibili senza una lotta efficace e rapida per sconfiggere il sottosviluppo. Tuttavia questa stessa lotta e' vanificata da una crescita demografica esponenziale". (7)
Sul fronte alimentare l'allarme e' scattato nell'86, da quando cioe' il consumo mondiale di derrate alimentari ha cominciato ad essere superiore alla produzione, provocando cosi' una diminuzione delle riserve.
"La produzione alimentare non puo' raddoppiare nei prossimi 40 anni, come invece fara' la popolazione, anzi a causa dello 'stress' cui sono sottoposti i terreni agricoli si avra' via via una diminuzione dei prodotti coltivabili". (8)
Contemporaneamente l'esplosione della violenza non e' confinata all'interno del Terzo Mondo: da li' e' gia' partita una campagna, non solo nelle forme dell'ideologia ma anche in quelle ben piu' micidiali del terrorismo, che prende di mira l'intero Occidente ed i suoi privilegi.
"La ragione della nuova conflittualita' e' infatti la presenza, nel Nord, di risorse che per la prima volta nella storia potrebbero risolvere il problema della sopravvivenza dell'umanita' intera, e che invece sotto il monopolio dei paesi ricchi, sono usate per rafforzare i loro privilegi... E' la presenza di queste risorse senza precedenti, dunque, ad attivare una pressione del Sud sul Nord, che a sua volta non ha precedenti - anche perche' l'accumulazione di tali risorse avviene attraverso il coinvolgimento e lo sfruttamento del Sud . (9)
Il Nord e' l'area "dove il capitalismo e' l'ideologia repressiva, sostanzialmente condivisa dalle popolazioni del Nord, per la quale la minoranza costituita da tali popolazioni estromette il resto del mondo dal controllo dell'apparato scientifico-tecnologico". (10)
Il conflitto Nord-Sud
La consapevolezza della centralita' del conflitto Nord-Sud sembra ormai diffusa a livello intellettuale ma a livello politico se ne sottovalutano gli effetti e soprattutto non si riesce ad individuare soluzioni praticabili. Tutte le proposte rientrano infatti nel tradizionale paradigma industrialista, piu' sviluppo, piu' crescita, che in realta' riproduce lo stesso problema ma su scala piu' critica.
Da sinistra si propone una difesa accanita del livello di vita dell'Occidente, attraverso i tradizionali strumenti protettivi e protezionistici dello Stato sociale, salvandosi la falsa coscienza con le buone intenzioni sull'integrazione razziale e gli aiuti al mondo sottosviluppato senza indicare ne' dove trovare i soldi ne' come spenderli.
Alla destra risulta facile criticare questa posizione ricordando la crescita incontrollata del debito pubblico, l'insostenibilita' dei costi previdenziali, ma piu' in generale la caduta di autorita' e di possibilita' di manovra degli Stati nazionali nell'era della "globalizzazione" economica: quando le risorse degli stessi sono irrisorie di fronte all'entita' del flusso borsistico e finanziario di capitali a livello mondiale, e quando l'apertura dei nuovi mercati di merci e lavoro dei paesi del Terzo Mondo costringe i salari ad un livellamento generale verso il basso, mentre l'innovazione tecnologia produce disoccupazione in tutti i settori. La proposta che viene avanzata da questa parte, e' quella di cavalcare proprio questi processi configurati nella formula del "turbo capitalismo", che dovrebbe trascinare, nelle intenzioni, l'industrializzazione a livello globale, in una corsa tra le continue innovazioni dell'Occidente e le capacita' imitative del mondo sottosviluppato, dando comunque per scontata una fase di crescente poverta' e di tensioni sociali (che spetterebbe al "politico" controllare) nei paesi del Nord spinti a questa nuova reindustrializzazione. (11)
Questa posizione e' espressione della fede ottimistica nelle virtu' salvifiche delle nuove tecnologie, nei vari campi della robotica, dell'informatica, delle bioingegnerie. Ma avvertimenti critici sugli sviluppi incontrollati da questa "terza rivoluzione industriale" sono stati avanzati gia' da tempo. Ad affrontare per primo il problema nei suoi vari aspetti, era stato il Club di Roma nel 1982 con il rapporto sulla "Rivoluzione Microelettronica". L'ondata di nuove tecnologie, basate essenzialmente sugli sviluppi dell'informatica, veniva qui presentata come una svolta epocale:
"possiamo affermare di trovarci sulla soglia di un periodo di trasformazione profonda, che durera' da trenta a cinquant'anni prima di imporre un tipo completamente diverso di societa' mondiale". (12)
Dati i tempi, era ancora possibile per gli autori del rapporto disegnare scenari utopistici di soluzione dei conflitti e dei problemi sociali e mondiali con l'ausilio delle nuove tecnologie. Contemporaneamente pero' venivano denunciati i pericoli: disoccupazione di massa, aggravamento del divario Nord-Sud, crisi delle realta' nazionali.
Gli sviluppi successivi confermano le previsioni piu' pessimistiche. Un libro recente ci avverte:
"piu' del 75% della forza lavoro occupata nella maggior parte delle nazioni industrializzate svolge funzioni ripetitive semplici. Macchine automatizzate, robot e computer sempre piu' sofisticati possono eseguire molte, se non la maggior parte, di tali mansioni. Nei soli Stati Uniti, cio' significa che nei prossimi anni piu' di 90 dei 124 milioni di individui che costituiscono la forza lavoro sono potenzialmente esposti al rischio di essere sostituiti da una macchina. Dal momento che le attuali analisi dimostrano che meno del 5% delle imprese, a livello mondiale, ha iniziato ad adattarsi alla nuova cultura delle macchine, sembra quasi inevitabile che, nei prossimi decenni, si debba far fronte a una disoccupazione di massa di proporzioni mai viste finora". (13)
Secondo l'autore "la ridefinizione delle opportunita' e delle responsabilita' di milioni di persone in una societa' nella quale non esiste l'occupazione formale di massa sara', molto probabilmente, la questione sociale piu' pressante nel secolo a venire". Intanto, "le tecnologie dell'informazione e della comunicazione e le forze del mercato globale stanno rapidamente polarizzando la popolazione mondiale in due forze inconciliabili potenzialmente conflittuali: una e'lite cosmopolita di "analisi di simboli" che controllano le tecnologie e le forze di produzione; e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso, con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un'occupazione significativa nella nuova economia globale ad alta tecnologia". (15) Ed e' appunto a livello mondiale che la ricaduta tecnologica provoca i rischi maggiori, contribuendo alla radicalizzazione, anziche' alla soluzione, del conflitto Nord-Sud.
"Vi sono precise indicazioni del fatto che alcune delle nuove tecnologie del 'Primo' Mondo, lungi dal venire in soccorso ai paesi in via di sviluppo afflitti dal boom demografico, possano perfino danneggiarli". (16)
A cominciare dall'applicazione delle biotecnologie in agricoltura, prospettata come soluzione dei problemi alimentari dell'umanita', che implicherebbe "un significativo trasferimento della produzione agricola (o di suoi succedanei) dai paesi in via di sviluppo, con conseguente peggioramento della loro bilancia commerciale e dell'indebitamento, ed una accresciuta dipendenza dai paesi ricchi. Inoltre, se anche i paesi in via di sviluppo fossero in grado di superare tutti gli ostacoli (mancanza di laboratori, scienziati, know-how) e di sviluppare una propria produzione in vitro, cio' avverrebbe a spese di milioni di posti di lavoro in campo agricolo e col rischio di provocare una vera e propria rivolta del ceto rurale". (17) Contemporaneamente l'automazione industriale ed il conseguente aumento di produttivita' "accresce altresi' il potere relativo di societa' e nazioni in grado di passare alla produzione automatizzata e al contempo di controllarne le conseguenze sociali... anche in questo caso siamo in presenza di una rivoluzione tecnologica destinata a mantenere i paesi poveri 'in posizione di coda' e a indebolirli ulteriormente". (18) Inoltre
"il quadro idilliaco di societa' multinazionali superefficienti che competono per offrire i loro ultimi ritrovati della tecnica a clienti di favore sparsi ai quattro angoli del globo, con i rispettivi governi ridotti a entita' invisibili, puo' senza dubbio apparire seducente, ma ignora il fatto che cio' di cui la gran parte delle nazioni piu' povere ha bisogno non e' soltanto la liberta' concessa dall'economia di mercato, quanto soprattutto enormi investimenti in campo sociale... occorrono enormi investimenti pubblici... in modo da creare quelle condizioni che permettano di attrarre gli investimenti delle compagnie americane o giapponesi. Ma dove trovare tali fondi pubblici e' un tema poco o punto affrontato dai fautori della globalizzazione". (19)
Dunque i processi di globalizzazione economica e di sviluppo tecnico-scientifico non spingono affatto verso un riequilibrio degli assetti planetari ma al contrario verso una radicalizzazione delle differenze e quindi dei conflitti fra Nord e Sud del mondo. E' d'altra parte un meccanismo inevitabile all'interno del paradigma della crescita economica: in quanto tale questa non e' generalizzabile, il modello occidentale non e' esportabile all'intero pianeta per gli effetti distruttivi che comporterebbe. A fronte della crescita demografica, per estendere il livello di consumi occidentali al secondo e al terzo mondo "sarebbe necessario aumentare da cinque a dieci volte l'attivita' economica... Un aumento dell'attivita' economica da cinque a dieci volte si traduce in un nuovo enorme sovraccarico per l'ecosfera". (20)
Il problema dei limiti dello sviluppo venne affrontato per la prima volta nell'ormai famoso primo rapporto al Club di Roma, ma li' l'attenzione era ancora rivolta soprattutto al problema delle risorse e delle materie prime. La questione consiste piuttosto nell'impatto globale che il sistema industriale, tanto piu' nella prospettiva di una sua ulteriore proliferazione, comporta sull'intero ecosistema. Cio' che dal punto di vista economico e' trattato come produzione di beni, dal punto di vista ecosistemico rappresenta da una parte sottrazione complessiva di energia ai processi di regolazione e rigenerazione dell'ecosfera, dall'altra emissione di inquinamento e quindi degradazione dei meccanismi di quello stesso processo.
"L'umanita' si sta appropriando direttamente o indirettamente di gran parte della frazione di energia solare che viene sfruttata, mediante il processo di fotosintesi, dalle piante, dalle alghe e da alcuni tipi di batteri. Praticamente tutti gli animali e gli altri organismi non fotosintetizzatori dipendono in ultima analisi da questa energia, che essi assumono con il cibo. Tutta l'energia catturata ogni anno fai fotosintetizzatori e non utilizzata da questi per vivere e' chiamata la 'produzione primaria netta' (PPN)".
Attraverso i suoi consumi diretti ed indiretti e i suoi interventi sul territorio, l'umanita' sta consumando "quasi il 40% della PPN terrestre potenziale del pianeta... Questa enorme diversione delle risorse energetiche di tutta la vita sulla Terra ben spiega perche' i servizi vitali forniti dagli ecosistemi naturali si stiano deteriorando". (21)
Dal punto di vista dell'emissione, gli scienziati hanno recentemente confermato il decisivo contributo delle attivita' e dei prodotti industriali sull'effetto serra , (22) con il rischio di sconvolgimento dell'assetto climatico globale e relativi effetti catastrofici, che ci sono stati ampiamente descritti, mentre ci veniva comunicato che il 1995 e' stato l'anno in cui la Terra ha registrato la piu' alta temperatura, da che sono iniziate questo genere di rilevazioni . (23)
Dal mito del progresso al paradigma della complessita'
Tutto questo non deve sfociare in un fatalismo apocalittico, ma impegnarci in una revisione del pensiero, dei criteri di valutazione e dell'agire che ci consenta di evitare gli esiti apocalittici.
Sul piano razionale la soluzione appare chiara: per evitare il collasso, l'umanita' nel suo complesso deve avviarsi verso una transizione multipla, che comporti. 1) un'inversione delle tendenze demografiche, attraverso una stabilizzazione prima ed una diminuzione poi della popolazione, 2) un adeguamento dei consumi materiali ed energetici dell'Occidente ai livelli ecologicamente compatibili, 3) una redistribuzione delle risorse naturali e tecniche fra Nord e Sud del mondo.
Ma questa e' appunto un'enunciazione razionale, che si scontra con modi di pensare, comportamenti, aspettative, interessi, abitudini e pregiudizi che sono irrazionali o a razionalita' limitata. Contro questo blocco bisogna mobilitare le energie a livello di pensiero e di azione, locale e globale, senza illudersi che gli esiti possano essere lineari ed indolori.
Di fronte a questi problemi, non solo la pratica politica che e' di per se' "stupida", vive nel breve periodo, di riflessi condizionati - ma la stessa teoria politica e' muta. Un celebre scienziato della politica in un suo altrettanto celebre libro ha affermato recentemente: alcuni problemi "sono gia' ben identificati, per esempio la bomba demografica... e la minaccia del collasso ecologico; ma non riguardano la teoria della democrazia". (24) Tanto vale dire che la teoria della democrazia non serve a nulla, ed in effetti non mancano i segnali che la si vuole usare per farne lo scudo e la spada ideologica con cui difendere i privilegi di una parte del mondo. Inutile pensare oggi ad una "riforma della politica", il cambiamento puo' venire solo da rotture profonde dentro il tessuto socio-culturale, rotture pratiche che mettano in discussione la logica della tecnica e dell'economia.
Da piu' parti ormai si invoca la necessita' di "una regolazione su scala planetaria" per evitare i disastri di un collasso ecologico, ma pochi ancora sono disposti ad ammettere che "sara' necessario che catastrofi di questo tipo siano imminenti, ma nel contempo non irrimediabili, perche' si diffonda una presa di coscienza e si dia il via a una costruzione di sistemi metanazionali e di sistemi su scala planetaria". (25) Piu' in generale:
"c'e' una pedagogia delle catastrofi. I dubbi, gia' notevoli, che hanno scosso la fede tecnicistica, potrebbero ben portare ad una crisi profonda... Il culto del progresso non passa piu' per delle preghiere monotone rivolte alla divinita', ma per delle pratiche familiari entrate nelle abitudini e la rivendicazione di ulteriori innovazioni per risolvere le disfunzioni generate dalla dinamica stessa del progresso. Soltanto una 'catastrofe' pratica puo' aprire gli occhi degli adepti affascinati" (26).
Una cultura alternativa deve quindi uscire dall'impotenza di un illusorio ottimismo e sapere che "la condizione in cui ci troviamo ci obbliga a fare i conti con la catastrofe e a coricarci al suo fianco perche' non ci sorprenda durante il sonno. Possiamo cosi' accumulare una riserva di sicurezza che ci consenta poi di agire in modo razionale" (27).
Dobbiamo rinunciare anche alle piu' recenti illusioni sullo sviluppo eco-compatibile o sostenibile, che rappresentano
"soltanto l'ultimo atto di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a fare entrare una parte di sogno nella dura realta' della crescita economica... Lo sviluppo e' stato ed e' l'occidentalizza-zione del mondo, la guerra economica e la depredazione della natura. Finche' si continuera' a lottare contro gli effetti ed i misfatti ecologici dello sviluppo mettendosi sotto la protezione della sua bandiera, lo si voglia o no si incoraggia l'arroganza degli economisti... Quando si razionalizza l'ecologia e' necessariamente l'economia che impone la sua legge". (28)
Una revisione del pensiero deve portarci ad un'uscita radicale dal mito del progresso, che domina ancora oggi l'universo dei criteri, delle percezioni, delle aspettative delle masse occidentali ed ancor piu' delle loro e'lites intellettuali.
"Il Progresso e' il grande mito tribale dell'Occidente... La postmodernita' ed il dopo sviluppo possono iniziare solo dopo l'abbandono del culto del progresso. Il progresso, la tecnica, l'economia costruiscono un triangolo di campi interdipendenti che formano la base della modernita'", ma "il progresso occupa un posto essenziale in quanto mette in orbita l'immaginario che permette lo sviluppo degli altri due".
Questa visione e' oggi accompagnata dalla "nostalgia per la semplicita' passata - che e' l'altra faccia dell'ideologia del progresso". (29) In realta' la nostalgia e' "un'abdicazione della memoria", che interferisce "sia con una ricostruzione del nostro passato che con una valutazione equilibrata delle prospettive future", e' il richiamo al comunitarismo come contrappeso all'idea di progresso "che cerca di equilibrare i vantaggi del progresso con i suoi svantaggi e rimane comprensibilmente ambivalente riguardo all'intera faccenda. E' necessario un punto di vista che tagli corto con questo dibattito inconcludente, ponendo in discussione le categorie dominanti". (30)
Questa discussione deve svolgersi non con lo sguardo rivolto indietro, ma partendo dai piu' recenti paradigmi di pensiero, provenienti dalle scienze piu' avanzate, in particolare i paradigmi della complessita' e dei limiti della mente umana. E' dalla cosiddetta "Scuola di Santa Fe" che provengono i piu' recenti ed avanzati studi sulla complessita'. Uno dei fondatori della scuola, il premio Nobel per la fisica teorica M.Gel-Man, nel definire il campo di indagini, elenca:
"l'evoluzione chimica, l'evoluzione biologica, il comportamento di organismi singoli, il funzionamento egli ecosistemi, del sistema immunitario dei mammiferi, l'apprendimento ed il pensiero, l'evoluzione delle lingue umane, l'ascesa e la caduta delle culture umane". (31)
Tutte queste realta' rientrano nella definizione di "sistemi adattativi complessi". Si tratta cioe' di fenomeni che coinvolgono ognuno numerosi fattori indipendenti; sviluppano un'autorganizzazione spontanea, derivante dall'azione di reciproco adattamento fra gli agenti, che acquisiscono in questo modo proprieta' collettive emergenti, irraggiungibili a livello individuale (come la vita, il pensiero, l'intenzionalita'); sono adattativi, in quanto non si limitano a reagire passivamente agli eventi ma si sforzano di svolgere a proprio vantaggio qualsiasi circostanza. Tutti questi sistemi hanno acquisito "la capacita' di conciliare ordine e caos in un particolare stato di equilibrio spesso definito 'margine del caos'- in cui i componenti non raggiungono una posizione stabile e tuttavia non si dissolvono nella turbolenza". Il 'margine del caos' e' quella zona di transizione, fra la rigidita' di un ordine banale e povero e il caos totale di una proliferazione di agenti disordinati, in cui, a partire da poche leggi naturali di organizzazione, si possono formare sistemi complessi localmente ordinati. Il concetto di equilibrio qui implicito e' ben lontano da quello tradizionalmente legato all'idea di stabilita' e di ottimizzazione. Questi sistemi si trovano sempre in sviluppo, in transizione e non raggiungono mai la posizione di equilibrio stabile. Non ha nemmeno senso immaginare che gli agenti possano in qualche modo "ottimizzare" il loro adattamento, essendo la gamma delle possibilita' troppo ampia. Al massimo possono migliorare in rapporto al comportamento degli altri agenti.
Fondamentale per la comprensione di questi sistemi e' la simulazione al computer, che permette di studiare da un punto di vista matematico come
"da un numero limitato di regole possano emergere comportamenti complessi... Questa matematica rappresenta il primo gradino, il linguaggio di base dell'informatica dei sistemi complessi. All'altro estremo si situano i tentativi, ancora prematuri, di utilizzare tali sistemi per studiare i rapporti fra uomo, societa', biosfera. A un livello intermedio, invece, alcuni studiosi cercano di comprendere il funzionamento dei sistemi adattativi nelle scienze biologiche, comportamentali e sociali. A mano a mano che ci allontaniamo dal livello di base, puramente matematico, cominciano a diventare importanti i cosiddetti accidenti storici e il loro progressivo accumularsi". (33)
Si studiano cosi' i fenomeni non lineari, che si incontrano numerosi in natura e tanto piu' nello studio della mente e delle societa' umane. Sono sistemi formati da una vasta rete non lineare di incentivi, costrizioni, connessioni. Il minimo mutamento di una loro parte produce sconvolgimenti nelle altre: ogni cosa e' connessa a un'altra e sovente con un'incredibile sensibilita'. Le piccole perturbazioni non rimangono sempre piccole. In circostanze appropriate, la minima indeterminazione puo' crescere fino a rendere del tutto imprevedibile - ovvero caotico - il futuro del sistema . (34) Da questo deriva anche che:
"In un sistema complesso adattativo... il flusso dei dati che lo interessa segue determinati schemi. A loro volta questi schemi entrano in competizione fra loro e si avvicendano nel tempo. Adoperandoli per descrivere e predire il comportamento del mondo, oppure per prescrivere un comportamento allo stesso sistema complesso adattativo, si generano conseguenze sulla realta'. Infine queste conseguenze influenzano retroattivamente la competizione fra schemi diversi, rendendo cosi' possibili l'adattamento e l'apprendimento". (35)
L'idea di 'margine del caos' ci apre ad una concezione nuova della storia e della societa' umana, come un sistema che segue una continua evoluzione, che non ha di per se' valenze positive, non ha una direzione e tantomeno segna un progresso, ma e' produzione continua di nuove "emergenze", di una sempre maggiore complessita'. D'altra parte la crescita di complessita' non e' senza limiti: alla fine i sistemi raggiungo un livello "oltre il quale i nuovi eventuali incrementi di complessita' non potranno piu' essere di aiuto all'efficienza dinamica; oltre quella soglia l'evoluzione puo' produrre soltanto una deriva non selettiva" (36).
La crescita delle metropoli (pensiamo alle previsioni sulla crescita nel prossimo futuro delle metropoli del Terzo Mondo) e' una metafora efficace di questo processo: la crescita continua di abitanti, relazioni, attivita', tutto dipende dalla crescita di un apparato tecnico di controllo sempre piu' sofisticato, portano l'intero sistema al punto di rischiare, al minimo intoppo, il collasso totale. Per evitare il collasso finale, il sistema deve operare un passaggio di forma, organizzarsi in una nuova configurazione che riduca la complessita' globale. Quale sara' questa nuova configurazione a livello politico-sociale non e' dato saperlo, ne' prevederlo, ma certamente sara' una fuoriuscita dal sistema industriale ed un ingresso in un mondo veramente postindustriale.
[Torino, febbraio 1996]
NOTE
1. R. Gobbi, Chi ha provocato la seconda guerra mondiale?, Muzzio,1995, p.1.
2. C Pelanda, "il Giornale", 160196.
3. E. Morin, Per uscire dalXX secolo, Lubrina, 1989, p.69.
4. I. Severino, "La bilancia", Rizzoli, 1992, p.20.
5. A de Benoist, "Il Giornale", 160196.
6. "La Stampa", 281295.
7. J. Daniel, "La Reppublica", 091091.
8. L. Bignami, "Il Corriere della Sear", 210192.
9. I. Severino, op. cit., p.37.
10. I. Severino, Il declino del capitalismo, Rizzoli, 1993, p.89.
11. Aa Vv, Il fantasma della povertà, Mo,ndadori, 1995.
12. Aa Vv, Rivoluzione Microelettronica, Mondadori, 1982, p.32.
13. J. Rifkin, La fine del lavoro, Badini e Castoldi, 1995, p.27.
14. Op. cit., p. 16.
15. Op. cit., p. 18.
16. P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Garzanti, 1993, p.30.
17. Op. cit., p. 109.
18. Op. cit., p. 122.
19. Op. cit., p. 85.
20."Le scienze", novembre 1989, p. 108.
21. P. e A. Erlich, Una pianeta non basta, Muzzo, 1992, p.35.
22. Conferrenza ONU sul clima, dicembre 1995.
23. "La Stampa", 050196.
24. Sartori, Democrazia, Rizzoli, 1993, p. 317.
25. E. Morin, op. cit., p.14.
26. Latouche, La megamacchina, Biringhieri, 1995, pp. 165-166.
27. E. Junger, Tratato del ribelle, Adelphi, 1990, p. 67.
28. Latouche, op. cit., p. 103, 112 e 118.
29. Op. cit., p. 137.
30. Lasch, Il paradiso perduto, Feltrinelli, 1992, p.12.
31. G. Brockman, La terza cultura, Garzanti, p.288.
32. M. Waldrop, Complessità, INSTAR Libri, 1995, p.8.
33. G. Brockman, op. cit., p. 293.
34. M. Waldrop, op. cit.
35. G. Brockman, op. cit., p.289.
36. E Laszlo, Evoluzione, Feltrinelli, 1986, p. 40.
Estratto di Revisionismo e revisionismi (1996).
Grafos, Campetto, 4, 16123 Genova.
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