SUL TERRORISMO ISRAELIANO
Immaginate. Immaginate che verso la fine del XIX secolo una piccola
etnia cinese, arricchita attraverso il commercio, abituata alle
migrazioni ¬ il caso esiste, penso per esempio agli Hakka,
un popolo giunto dalla Cina dei nord e installato da molti secoli
nel sud, arricchitosi con il commercio ambulante e l'emigrazione
¬, immaginate, dunque, che un popolo di questo tipo, potremmo
chiamarlo degli hokko, con riferimento ai suoi miti di fondazione,
che tragga la propria origine da una dea Vacca o da un dio Kabalo,
decida di installarsi su una terra promessa dalla dea o dal dio,
per esempio in Normandia o in Toscana, intorno alla città
di Siena con il suo palio emblematico, celebrazione evidente del
dio Kabalo che resta, da millenni, nelle attese dei suoi veri
fedeli. Il tempio, il Grande Tempio di Kabalo, è stato
distrutto dall'esercito romano duemila anni fa e alcuni sognano
di ricostruirlo, per inaugurare una nuova era di prosperità
e di successi prodigiosi. Questo sogno, fatto da qualche intellettuale
formato a Pechino o a Tokyo, deve molto alle forme del moderno
nazionalismo, ma è presentato alle masse lavoratrici come
una rivincita storica, come il solo modo per proteggere la piccola
comunità, che vive chiusa su se stessa, fatta segno a vari
ostracismi e continuamente schernita da parte di gente presso
la quale abita, senza veramente coesistere. Essa si è circondata
di mura, che ricordano le grandi case collettive, rotonde, degli
Hakka. Ma non vorrei mischiare troppo gli ammirevoli Hakka con
questa storia, poiché essi si sono accontentati, nei secoli,
di lavorare duramente e di preservare le loro tradizioni ancestrali,
senza sconfinare nel territorio dei vicini. Veri saggi, induriti
dalla fatica e contenti di vivere.
Continuiamo a fantasticare. Approfittando
delle circostanze storiche che hanno portato al provvisorio assoggettamento
della Francia o dell'Italia, gli inviati dei nostri ipotetici
hokko hanno rivendicato la creazione di un «focolare nazionale
hokko». Evidentemente, in Normandia o ìn Toscana,
queste peripezie lontane sono sconosciute e non si attribuisce
loro alcuna importanza. La presenza sul posto di qualche decina
di commercianti o artigiani hokko non ha mai turbato nessuno.
La questione hokko non si pone, salvo che per certi politici locali
che protestano contro l'idea stessa di una sorta di dominazione
hokko, che non è veramente all'ordine del giorno. Per motivi
di congiuntura internazionale (la desiderabilità di un'alleanza
con la Cina), ai quali si aggiunge la propensione di alcuni politicanti
locali a intascare bustarelle confortevoli, un ministro qualsiasi
ammette la creazione in Normandia o in Toscana di un «focolare
nazionale hokko». Nessuno sa bene che cosa vogliano dire
queste parole. La loro ambiguità sarà pagata caramente.
Nei decenni successivi, che vedono alcune forti convulsioni dell'ordine
internazionale, finanzieri hokko, i quali dispongono di importanti
banche nella diaspora hokko, comprano alcune terre in Normandia
o in Toscana e come coloni vi collocano disoccupati, giovani senza
futuro, soldati smobilitati, in breve tutto il limo di una società
che emigra per sfuggire alla miseria. Questi emigranti potrebbero
andare in America, verso l'Eldorado, ma scribacchini sempre più
impegnati nel nazionalismo hokko li convincono a partire per la
Normandia (o per la Toscana), per mischiare l'Eldorado delle terre
vergini con il Ritorno alle Origini, pegno di felicità
eterna. La dea o il dio Kabalo non sono invocati che come notai
divini che avrebbero siglato, trenta secoli prima, una promessa
di vendita della Terra Santa agli hokko. Quei giovani credono
facilmente di far parte di un popolo senza terra che sta per installarsi
in una terra senza popolo. Nessuno prova a disingannarli.
Evidentemente, sul posto, le cose non vanno tanto bene. Gli indigeni
normanni vedono di cattivo occhio l'installazione di un numero
sempre crescente di stranieri dalla pelle bruna, dagli occhi a
mandorla, che parlano una lingua incomprensibile, l'hokkish, e
che hanno alimentazione, costumi, copricapo e abitudini bizzarri.
Siccome questi stranieri pensano che tutto sia loro permesso,
si verificano frizioni e incidenti. In capo a vent'anni, c'è
perfino un inizio di insurrezìone degli indigeni, rapidamente
represso dalle truppe d'occupazione dei Terzo Impero, che domina
in questo momento tutta la regione. Gli hokko cominciano a formare
milizie per imporre con la forza ciò che non hanno potuto
imporre con il solo peso dell'occupazione straniera. E queste
milizie se la prendono ben presto con le forze di occupazione,
colpevoli, ai loro occhi, di limitare l'immigrazione hokko.
Quando l'evolversi delle circostanze porta l'Impero a ritirare
le sue forze di occupazione, il Concerto delle Nazioni, organismo
fantasma sprovvisto di qualsiasi legittimità politica,
che non è eletto da nessuno, decreta la spartizione del
la Normandia o, sempre nella nostra ipotesi, della Toscana. Grande
turbamento in Francia o in Italia. Nessuno riesce a capire e ancor
meno ammettere che si tagli con la sega un pezzo di territorio
nazionale per darlo a questi originari dell'Asia, con il pretesto
che i loro dannati miti originari sarebbero più o meno
sovrapponibili alla tale o talaltra regione della vecchia Europa,
terra di civiltà millenaria. Che vadano al diavolo!
Ma non si calcola il peso che gli hokko hanno saputo acquistare
sulla scena internazionale. Essi hanno appoggi ovunque, si fanno
dare armi e al momento giusto danno il via a una guerra di conquista.
Cacciano i normanni (o i toscani) dai loro villaggi, che bruciano
e radono al suolo, fanno alcuni massacri per costruirsi un'immagine
terrificante. La terra è quel che conta innanzitutto. Tutti
i crimini sono leciti quando si tratta di prendere e conservare
la terra. C'è una curiosa legge in questo paese, che non
è simile a nessun'altra: una terra qualsiasi, se è
divenuta proprietà di un hokko, non può essere trasmessa
o devoluta che a un altro hokko. I nonhokko non potranno mai recuperarla
per vie legali.
Con l'artificio di questo breve racconto, vorrei che il lettore
si mettesse al posto dei normanni o dei toscani. Che esso comprendesse
come un'antica civiltà agraria, come un piccolo cantone,
che fa parte di un vasto insieme regionale, possa essere improvvisamente
vittima di un uragano di ferro e di fuoco, saccheggiato, bruciato,
mutilato, senza che qualcuno abbia provocato la cosa. Che gli
invasori e massacratori siano hokko o ebrei, le cose non cambiano.
L'epoca in cui le Nazioni Unite decidono di spartire la Palestina
è quella in cui il vecchio colonialismo entra in agonia:
1947, l'India e il Pakistan scuotono via la tutela inglese, l'Indocina
entra in guerra, il Madagascar si solleva, mentre la «cortina
di ferro» cala sull'Europa orientale e, a breve scadenza,
sulla Cina.
A Versailles, nel 191820, le grandi potenze si erano giocate alla
roulette l'indipendenza o la creazione di Stati. E io ti fabbrico
qui una Cecoslovacchia, là una Jugoslavia, faccio a pezzi
l'Ungheria, ti assegno un mandato in Africa, tu me ne dai uno
nel Pacifico, annullo la Turchia, risputo un emirato qui, una
monarchia hascemita là, no, altrove, più lontano,
in breve era un casinò e il tappeto verde era il pianeta.
I dadi ruzzolavano, le placche passavano di mano, si decideva
il destino del mondo. L'americano Wilson conduceva la partita,
in tutta fretta, prima di ritirarsi all'improvviso, sconfessato
dal suo stesso cortile politico. Versailles è stato un
crimine, di ispirazione coloniale, dal quale sono nati, come tutti
potevano prevedere, Hitler, la seconda guerra mondiale e molti
tra i conflitti successivi.
In Palestina, «concessa» agli avidi inglesi, l'ingiustizia
fu palese. Essa è sempre lì, dopo ottant'anni. Le
une dopo le altre, le generazioni si sono levate per difendere,
come farebbero tutti in qualsiasi parte del mondo, la loro terra
e la loro famiglia, la loro casa, i loro campi e la loro patria.
Dal punto di vista del diritto più elementare, più
universale, la cosa è chiara: i palestinesi hanno il diritto
sacrosanto di difendersi, con le armi e con tutti gli altri mezzi,
e gli israeliani non hanno alcun diritto su quella terra, come
non ce l'avrebbero gli hokko venuti dal loro Oriente lontano se
per caso pensassero di rivendicare e occupare la Normandia o la
Toscana, o non importa quale luogo del mondo che le loro fantasie
mitologiche li porterebbero a designare come una «terra
promessa», ma promessa a chi e da chi? Queste elucubrazioni
sarebbero ridicole, se non fossero tanto tragiche.
Se si vuole capire qualcosa sull'uso smodato della forza e del
terrore da parte dei sionisti, occorre partire di qui: essi sono
stati fin dagli inizi e ancora oggi sono stranieri in Palestina.
Gli arabi che la popolano da tempi immemorabili applicavano, come
tutti i popoli di questa regione, le leggi dell'ospitalità.
Uno straniero era ben accolto, perché era uno straniero.
In un lontano passato, anche i nostri antenati hanno messo in
pratica queste leggi, rileggete l'Odissea. Ma bisogna distinguere:
gli stranieri di cui parliamo non erano stranieri come gli altri
e non applicavano, di ritorno, le stesse leggi dell'ospitalità:
modestia, cortesia, rispetto dell'ospite, ecc. Bisogna metterli
piuttosto nella categoria degli invasori. Arrivavano d'altronde
contemporaneamente agli inglesi e muovevano le loro pedine con
la copertura del regime coloniale. L'episodio sanguinoso delle
Crociate non era del tutto dimenticato, viveva sempre nei racconti
popolari, come nell'interminabile saga del sultano Baibars, recitata,
spesso, nelle lunghe serate invernali. Vi erano sempre stati ebrei
in questa regione, sia pure in piccoli gruppi. A leggere il Corano,
la loro reputazione non era tra le migliori. Essi avevano cercato
di ostacolare la marcia del Profeta ed era stato necessario farli
ragionare. In ogni caso, queste società erano mosaici religiosi
ed era usuale avere vicini che praticavano riti diversi. I matrimoni
intercomunitari erano scarsi, ma si coabitava in modo pacifico.
Gli ebrei che arrivavano erano principalmente russi e polacchi,
pieni di ardore per i progetti di una nuova vita, lontano dalle
loro steppe ghiacciate. Erano così imbevuti di cultura
europea da considerare gli abitanti della Palestina come «indigeni»,
che erano sottoposti allo statuto di colonizzati e non avevano
conseguentemente da dire la loro. Il grande dibattito che animava
gli ebrei installati in Palestina in virtù della Dichiarazione
Balfour del 1917, che aprì loro il «diritto»
alla costituzione di un misterioso «focolare nazionale ebraico»,
era di sapere se le imprese agricole acquistate con il danaro
dei grandi banchieri ebrei dell'Occidente avessero il diritto
di impiegare lavoratori arabi o dovessero riservare i posti a
lavoratori ebrei. A imporsi fu evidentemente questo secondo punto
di vista. E, siccome l'acquisizione o l'appropriazione delle terre
procedeva rapidamente, tra i palestinesi cominciò a manifestarsi
il malcontento. I coloni ebrei si diedero a formare milizie e
gli incidenti si moltiplicarono fino alla grande insurrezione
del 1936. Gli inglesi cominciarono allora a rendersi conto di
aver compiuto una gigantesca bestialità e, per evitare
che i loro affari ne risentissero, decretarono la fine dell'immigrazione
ebraica.
Contemporaneamente era arrivato al potere Hitler, che cercava
di costringere gli ebrei a emigrare, moltiplicando misure vessatorie
e atti di terrore. Il dramma avrebbe potuto essere evitato se
gli altri paesi avessero accettato una grande ondata di immigrazione
ebraica proveniente dalla Germania e dall'Austria. Ma alla Conferenza
di Evian, nel 1938, si realizzò l'unanimità: nessuno
voleva questa massa di ebrei. Senza dubbio non erano considerati
tanto amabili e desiderabili. Nessuno si aspettava il seguito
degli avvenimenti, ma è necessario ammettere l'esistenza
di una buona dose di diffidenza, dovuta all'uso della violenza
che già si diffondeva in Palestina e anche al fatto che
nelle democrazie non erano visti di buon occhio i numerosissimi
militanti ebrei presenti nel movimento internazionale legato alla
Russia staliniana.
L'uso del terrore, battezzato «autodifesa», era cominciato
molto presto, con l'arrivo dei primi coloni sionisti all'alba
del ventesimo secolo. La frazione di destra del sionismo, diretta
da Vladimir Jabotinsky, ha riservato un posto notevole nel proprio
pantheon a un vecchio soldato dell'esercito russo, Yosef Trumpeldor,
che organizzava militarmente i coloni e si era fatto uccidere,
nel 1920, dai contadini palestinesi stufi delle estorsioni di
questi nuovi venuti. Trumpeldor era un esaltato che voleva imporre
la presenza dei coloni ebrei con la forza. Era molto popolare
nel movimento sionista perché metteva il dito sul problema
centrale: per sviluppare la presenza straniera ebraica in Palestina,
anche con la complicità delle autorità coloniali
britanniche, bisognava ricorrere alla violenza. Comprare terre,
trattare con i proprietari fondiari locali, spesso latifondisti
assenteisti, era possibile, ma non avrebbe portato alla creazione
dello Stato ebraico. Si potevano impiantare fattorie, più
o meno collettive, nelle quali convogliare gli sradicati delle
classi proletarie ebraiche dell'Europa centrale e orientale, sì
potevano sviluppare quartieri urbani per accogliere la piccola
borghesia della stessa provenienza, non si poteva controllare
lo spazio, lo spazio politico in cui sarebbe stato necessario
che si dispiegassero le istituzioni annunciatrici dello Stato
che i sionisti avevano in mente.
I sionisti si divisero in due tendenze: gli ipocriti, di sinistra,
i quali affermavano che era necessario intendersi con gli arabi,
che bastava metterci un po' di buona volontà e che si sarebbe
riusciti a ingannare tutti acquistando abbastanza terra per costruire
le istituzioni dello Stato ebraico. Era il discorso pubblico,
che non è cambiato, dei socialisti, laburisti, sulla linea
di Ben Gurion, di Shimon Peres, di Yitzhak Rabin e degli altri:
discutere con gli arabi per ingannarli, per condurli, con un sapiente
dosaggio di massacri e omicidi, a scegliere di diventare ausiliari
dei sionisti, senza terra, senza diritti, ma con qualche onorificenza
politica. Un Ben Gurion, che amava coltivare la propria immagine
di uomo «di sinistra», sognava, di fatto, di espellere
tutti gli arabi, ma non poteva dirlo pubblicamente senza mettere
in crisi le proprie alleanze. Durante la guerra del 1948, egli
forni copertura ai massacri, senza rivendicarli. Questa linea,
a lungo prevalsa nella politica israeliana, ha sempre fatto mostra
della più ripugnante ipocrisia. L'uso del terrore è
stato alternativamente negato e trasceso attraverso il ricorso
a una giuridicità puramente formale.
L'altra tendenza fu inizialmente incarnata da Jabotinsky e dal
suo gruppo «revisionista». Bisognava prendere atto,
secondo Jabotinsky, del fatto che gli arabi non avrebbero mai
accettato l'installazione degli ebrei sulle loro terre. Vi si
sarebbero opposti con tutti i mezzi e questo era un punto di vista
comprensibile. Di conseguenza, bisognava mettere tra loro e gli
ebrei un «muro di ferro», costituito dalle baionette
dei fucili che gli ebrei avrebbero impugnato saldamente. Questa
tendenza, diretta da Menachem Begin dopo la morte di Jabotinsky
nel 1940, non giunse al potere che nel 1977. Essa era favorevole
a un terrore aperto, visibile a tutti, che si imponesse agli arabi
rendendoli incapaci di resistere. Negli anni Trenta Jabotinsky
aveva costituito una milizia (Betar) e alcune filiere di formazione
militare. Si era inteso a meraviglia con il regime mussoliniano,
che ammirava, e aveva ottenuto da esso di far formare a Civitavecchia
i primi marinai di un'eventuale flotta militare. Ovunque, e perfino
nella Germama nazista, «campi della gioventù»
sul tipo di quelli degli scout avevano prefigurato la militarizzazione
del sionismo.
Durante la seconda guerra mondiale, ed è un capitolo che
meriterebbe ampi sviluppi, i sionisti, senza distinzione di tendenze,
cercarono un'intesa con i nazisti, per parte loro disponibili
a trattare, allo scopo di recuperare gli elementi giovani e dinamici
delle popolazioni ebraiche incluse nel Terzo Reich, per farli
partire per la Palestina, ancora britannica, e disporre della
fanteria indispensabile per un futuro esercito ebraico. Contemporaneamente,
questi stessi sionisti si davano da fare per creare, tra le truppe
inglesi, unità militari e servizi d'informazione, sempre
nell'idea della prefigurazione di un esercito ebraico di conquista.
Questi elementi sono presenti in tutta la mitologia che circonda
la creazione dello Stato ebraico, basta riferirsi alla sua propaganda
e alle biografie dei suoi dirigenti. I sionisti non contavano
certo di rafforzare l'impero britannico, che volevano allontanare
dalla Palestina, ma volevano sfruttare un'occasione per creare
il nucleo di un esercito che sarebbe effettivamente servito nel
1948 a prendere infine il controllo dello spazio di cui essi non
disponevano dal 1920.
Tutto mostra che i sionisti praticarono, nell'Europa sotto la
ferula nazista, una politica di selezione. In cambio della loro
buona volontà a lasciare sparire nella gola del Moloch
i vecchi, le donne e i deboli, essi chiedevano di salvare e far
partire per la Palestina i maschi giovani e forti, nell'intento
di un confronto militare con gli occupanti legittimi e allo scopo
di costruire uno Stato moderno, all'americana, ideale degli ebrei
dell'Europa orientale. Queste considerazioni spiegano certi tratti
curiosi della storia degli Judenrat, i gruppi dirigenti delle
comunità che dialogavano e servivano da cinghia di trasmissione
con le autorità tedesche, in particolare alcuni tentativi
di negoziato, a vari livelli, con il regime nazista, pronto a
scendere su questo terreno.
Certo, questa politica sionista
di selezione non piacque a tutti. Polemiche sorde nate tra le
macerie delle comunità ebraiche hanno a volte portato,
in seguito, a contrasti violenti. t ancora troppo presto per scrivere
la storia del movimento sionista dato che è impossibile
che i sionisti riconoscano di aver cercato di trarre vantaggio
dalla politica antiebraica, ma sionistizzante, delle autorità
naziste. La questione ha avvelenato i primi tempi dello Stato
d'Israele, con l'interminabile affare Kastner, principale dirigente
dello Judenrat d'Ungheria. Costui si ritrovò in Israele
nel 1948 e fu subito accusato da pubblicisti non ben identificati
di aver collaborato con i nazisti. Ne seguì un grande processo,
i cui atti furono più tardi pubblicati, ma solo in ebraico.
L'aspetto interessante è che lo Stato di Israele, rappresentante
del sionismo, si fece garante per Kastner. Le cose divennero così
imbarazzanti che un provvidenziale assassino procedette all'eliminazione
di Kastner. Questa vicenda è come una finestrella che consente
di gettare un raggio di luce sulle oscure trattative dei dirigenti
sionisti, i quali allora, senza praticare essi stessi il terrore,
dimostrarono una notevole capacità di utilizzare a loro
vantaggio quello che i nazisti facevano regnare sugli ebrei sottoposti
alla loro influenza. Quando alcuni scrittori, in America e in
Inghilterra, hanno voluto affrontare l'affare Kastner per chiarire
il lato oscuro del sionismo, sono stati vittime di violentissime
campagne di stampa e le loro opere sono state messe nel dimenticatoio
(si vedano Perfidy di Ben Hecht e Perdition di Jim Allen).
Le Nazioni Unite, creatura degli americani, decisero nel 1947
di spartire la Palestina. Decisione inaudita, di un cinismo senza
paragoni. La popolazione non fu evidentemente consultata. Gli
inglesi si liberavano di un problema che non erano in grado di
risolvere: essi avevano creato il mostro della presenza ebraica
organizzata, militarizzata, e non riuscivano più a controllarla.
Non esisteva alcuna base giuridica per la spartizione. Se le Nazioni
Unite decidessero domani di dividere la Normandia o la Toscana
per soddisfare qualche orda asiatica che pretendesse di imporsi
con la forza si capirebbe meglio la profonda illegalità
di una decisione di questo tipo.
Al momento della proclamazione dello Stato ebraico, che non bisognerebbe
chiamare Stato israeliano, poiché ritiene di essere lo
Stato di tutti gli ebrei del pianeta, l'esercito ebraico, organizzato
con il tacito consenso degli inglesi ed equipaggiato con armi
inviate dall'Unione Sovietica, poté iniziare una guerra
di conquiste. Lo strumento principale di queste conquiste è
stato il terrore impiegato per svuotare i villaggi dai contadini
palestinesi. I dettagli sono noti o facili da reperire e verificare.
Che pretesi «nuovi storici» israeliani scoprano questi
orrori quarant'anni dopo non deve suscitare illusioni; le cose
si sapevano fin dagli inizi: la guerra del 1948 è nota
dal 1948! È stata soltanto la propaganda sionista che ha
cercato, in seguito, di trasformare in eroi i ruffiani che l'hanno
fatta e di nascondere o negare i massacri maggiori. L'opinione
pubblica israeliana, accuratamente abbrutita da programmi scolastici
adeguati e da una stampa pesantemente censurata, ha potuto dimenticare
tutto. Non è meno vero che Israele è stato fondato
con la forza, a dispetto del diritto, e che sì è
conservato successivamente intraprendendo guerre e repressioni
di tipo genocida.
Non rifarò la storia dettagliata dei massacri deliberati
che hanno accompagnato lo svolgimento della guerra dei 1948. Il
ricordo di Deir Yassin ¬ già denunciato all'epoca da
alcuni osservatori, come Arnold Toynbee, il grande storico, messo
alla gogna per antisionismo («Arnold Toynbee sostiene che
l'espulsione degli arabi è un'atrocità più
grande di quelle commesse dai nazisti», deplorò un
foglio sionista) ¬ è stato conservato dai palestinesi.
Altri massacri, come quello di Tantura sono esumati, un po' a
caso, da ricercatori meravigliati essi stessi da ciò che
scoprono negli archivi. Altri restano celati. Si hanno liste di
villaggi rasi al suolo dalle soldatesche sioniste, ma non si sa
sempre in dettaglio come siano avvenute le evacuazioni. Oggi i
palestinesi hanno forgiato la parola nakba per evocare
l'insieme di queste atrocità.
Si potrebbe pensare che questi orrori, generati da una guerra
finita più di mezzo secolo fa, abbiano perso importanza,
che sarebbe meglio gettarli in quell'abisso senza fondo che gli
anglosassoni chiamano memory hole, il buco, senza fondo, della
memoria. Non è così facile. I coreani tremano ancora
al ricordo dei maltrattamenti inflitti dal Giappone ai loro ascendenti
nel 1905 e nel 1945. I cinesi soffrono ancora per lo «stupro
di Nanchino» perpetrato negli anni Trenta. Ma in Palestina
non si tratta di ricordi, di «costruzione della memoria»
come tante ideologie disoneste ci vogliono far credere. Si tratta
di un crimine di fondazione, che si perpetua e si ripete tutti
i giorni. Che si moltiplica. Che si estende e si ramifica. Ogni
giorno gli israeliani inventano nuove forme di umiliazione, per
esempio alle centinaia di posti di controllo sulle strade (checkpoint),
di tortura nelle prigioni, più o meno segrete. Quella gente
è tanto raffinata nell'arte difficile dell'oppressione
da permettersi di tenere corsi di formazione per i poveri americani.
I babbei della polizia americana credono che per perquisire una
casa sia necessario frugare stanza dopo stanza. Errore, dicono
i raffinati israeliani: per passare da una stanza all'altra bisogna
evitare la porta, che potrebbe nascondere una trappola. Per passare
tranquillamente da una stanza all'altra è perciò
necessario far saltare i muri con cariche esplosive. Si ammiri
la sottigliezza del procedimento. Per la campagna nell'Iraq gli
israeliani hanno anche fornito agli americani, che non avevano
pensato a procurarseli, gli enormi bulldozer blindati che hanno
fatto meraviglie a Jenin, Gaza e altrove. Si tratta solo di uno
strumento di «pressione» che può in vari modi
tornare utile.
La violenza, il disprezzo assoluto dei diritti dell'uomo palestinese,
e, bisogna ben dirlo, dei diritti dell'uomo non-ebreo, il ricorso
all'«omicidio mirato», in un paese che si vanta di
aver abolito la pena di morte, l'esproprio sistematico delle terre
agricole e non agricole, la confisca dell'acqua ¬ con la copertura
di una legalità, alle volte derivata dagli ottomani, che
ci sapevano fare, altre dagli inglesi che avevano fatto leggi
per lo stato d'eccezione e che sono sempre stati usi a girare
risolutamente le spalle a tutti quegli arsenali giuridici quando
era il caso ¬, tutto ciò appartiene senza ombra di
dubbio all'ordine del terrore. Bisogna riconoscere che i nazisti,
nella loro zona, o i commissari politici dell'epoca staliniana
non arrivavano a tanto. Consideriamoli come fanciulli imberbi
che avevano ancora molto da imparare.
La lotta contro gli inglesi fu condotta da piccoli gruppi che
si convertirono al terrorismo durante la guerra. Mentre le istituzioni
dell'Yshuv (l'insieme degli ebrei residenti in Palestina) collaboravano
allo sforzo bellico degli inglesi, e degli Alleati, creando una
«Brigata ebraica», che fu portata a combattere in
Italia e nell'Europa centrale, gli ebrei oltranzisti si lanciarono
in campagne di attentati, che avevano innanzi tutto lo scopo di
impedire o aggirare la politica inglese di limitazione del numero
degli immigranti ebrei, il cui aumento, Londra ne era consapevole,
avrebbe finito per far esplodere la pazienza dei palestinesi.
All'epoca i dirigenti politici ebraici mostravano di non saper
nulla di questa tendenza clandestina e anche di disapprovarla.
Oggi, i più ignobili omicidi di diplomatici e di inviati
stranieri sono rivendicati come azioni elevate e gli esecutori
sono spesso presentati, nel folklore locale, come coloro che avrebbero
«cacciato gli inglesi» e «liberato» il
paese. In realtà, c'era una connivenza tra i circoli politici
e le teste calde della bomba e del coltello, una connivenza che
si è palesata, dopo il '48, nel fatto che gli assassini
non sono stati puniti né perseguiti e che alcuni di essi
sono diventati, in seguito, primi ministri, capi dell'esercito,
ecc. (Begin, Shamir, Sharon e molti altri). È la legge
del crimine di fondazione, che dispiega i suoi effetti di generazione
in generazione, senza fine. Niente Norimberga.
La situazione nel 1948, dopo la proclamazione dello Stato e la
guerra, era la seguente: si erano cacciate molte centinaia di
migliaia di palestinesi non oltre i confini (Israele ha sempre
rifiutato l'idea di una frontiera accettabile e accettata), ma
oltre le linee armistiziali. Le autorità sioniste disponevano
dunque di terre, di uno spazio politico che era strategicamente
difficile da difendere, ma mancavano di manodopera. Gli ebrei
d'Europa, che emergevano dal difficile periodo della guerra, non
fornirono molti immigranti. Tra coloro che arrivavano, parecchi
ripartivano, disgustati. Gli altri preferivano l'America, il solo
paese «ricco» di allora. I sionisti si rivolsero a
un serbatoio al quale non avevano pensato fino a quel momento:
gli ebrei orientali, quelli dei paesi musulmani. Il servizio d'informazione
e i servizi speciali dell'esercito furono dunque incaricati di
organizzare l'emigrazione, più o meno clandestina, di questi
ebrei che erano, bisogna dirlo, disprezzati dai sionisti dominanti,
tutti russi o polacchi, a volte tedeschi o austriaci. Fu un po'
la stessa cosa che era successa durante la tratta dei negri. E
d'altronde, nel gergo politico israeliano, gli ebrei orientali
sono chiamati «neri». Gli sforzi dell'Agenzia ebraica
non furono subito coronati da successo. Certo, essa poteva reclutare
giovani che scorgevano nella creazione dello Stato d'Israele una
sorta di promessa vagamente messianica, che suscitava o confortava
un inizio di nazionalismo ebraico. Ma, nell'insieme, queste comunità
erano radicate da secoli e vivevano in buona armonia con i loro
vicini musulmani o, eventualmente, cristiani. Esse facevano affari,
dominavano alcuni settori economici e non erano disposte a rinunciare
alla loro agiatezza per emigrare. L'Agenzia ebraica fu costretta
a ricorrere ad altri mezzi.
Nello Yemen, un intenso lavoro di propaganda e di menzogna riuscì
a persuadere i membri di una delle più antiche comunità
ebraiche a credere che i Tempi fossero arrivati, che Dio avesse
comandato a grandi uccelli bianchi di venirli a prendere tutti
sulle loro ali per condurli verso la Gerusalemme celeste di cui
parlavano i Libri... Questa gente lasciò con entusiasmo
il suo meraviglioso Medioevo per ritrovarsi in campi miserabili,
polverosi, a imparare una lingua ebraica pesantemente germanizzata.
I genitori si videro togliere i loro bambini che furono assegnati
a ricche mamas nate tedesche. Molti di questi immigrati furono
impiegati come manovali... La misura della loro disillusione e
del loro malcontento resta da valutare, ma essi furono vittime
di un genocidio discreto, che non li uccise, trasformandoli in
coolies che presero posto negli strati bassi di quella società
neocoloniale chiamata Israele.
In Iraq, andò ben diversamente. Gli ebrei iracheni avevano
conosciuto la modernità durante il periodo britannico e
non si potevano smerciare tra loro le asinerie pseudo-messianiche
che avevano funzionato così bene nello Yemen. Gli ebrei
iracheni erano prosperi. A Baghdad formavano un quarto della popolazione.
Il sionismo era molto marginale. Il potere era assolutamente devoto
all'Occidente. Fu in questo contesto che scoppiarono alcune bombe
nei luoghi frequentati dagli ebrei. Vi furono morti e feriti.
Servizi speciali organizzati da Tel Aviv soffiarono sulle braci
e riuscirono a creare il panico. Erano pronti alcuni aerei. Gli
ebrei iracheni e dopo di loro una buona parte di quelli iraniani
fuggirono come un gregge di montoni attaccato dai lupi. I lupi,
ci se ne rese conto rapidamente, erano i servizi sionisti. Furono
arrestate alcune persone, altre fuggirono, furono prodotte prove
e si tenne un processo. Il dossier è chiaro: esso è
stato riesumato di recente da un testimone dell'epoca, Naeim Giladi,
in un libro intitolato Ben Gurion's Scandal. How the Haganah and
the Mossad Eliminated Jews. Per poter scrivere e pubblicare questo
libro, alcuni estratti del quale si possono leggere più
avanti, Giladi ha dovuto rinunciare alla sua cittadinanza israeliana,
lasciare il paese e trovare rifugio a New York.
Ci rompono non poco le tasche con un'asineria divenuta classica:
che Israele sarebbe l'unica democrazia del Medio Oriente. Il pretesto
è che vi si svolgerebbero elezioni. Anche l'Africa del
Sud durante l'apartheid era una «democrazia». Per
i bianchi. Gli Stati Uniti, nell'epoca ancora recente della «segregazione»,
erano ¬ più di ogni altro Stato ¬ una democrazia.
Per i bianchi. E si potrebbe parlare degli altri regimi che sono,
nell'insieme, di fatto, delle oligarchie. In Israele le cose hanno
preso un andamento particolare: l'assenza di legittimità,
la profonda insicurezza e il crimine originale si sono coniugati
dando vita a una società diretta dai militari o da ex militari
e da vecchie spie. Le carriere militari sono folgoranti e la pensione
viene raggiunta rapidamente.
I generali si riconvertono in politici, legati a cricche militari
e gruppi industriali che lavorano per l'esercito. La corruzione
marcia a pieno regime. Questi militari hanno in parte fatto carriera
nei vari servizi d'informazione, che formano gruppi separati.
La democrazia consiste nello scegliere quale gruppo militare avrà
una leggera e momentanea preminenza sugli altri. Non si tratta
soltanto di una confisca del potere. L'effetto è quello
di una militarizzazione degli animi, realizzata a partire dalla
scuola primaria. Vi sono pochi paesi nei quali il rimodellamento
degli animi in funzione di un'ideologia nazionalista e militarista
sia più perfezionato che in Israele.
Trentacinque anni fa, ho trascorso una giornata molto istruttiva
sul bordo di una piscina, a Singapore. Vi avevo incontrato, per
caso, uno di quei misteriosi personaggi che le voci locali indicavano
come «messicani». Di fatto, si trattava di una piccola
squadra di «specialisti» israeliani, tutti militari
o ex militari, inviati dal loro governo su richiesta di Lee Kwan
Yu, capo del governo appena insediato di Singapore. L'isola e
la città facevano parte di una federazione malese costituita
dagli inglesi in occasione della loro partenza. Le ambizioni,
e il successo, di Lee, che guidava un partito cinese populista,
avevano inquietato i sultani malesi e costoro avevano espulso
Singapore dalla federazione. Lee Kwan Yu, vagamente laburista
in origine, ma dittatore nell'animo, si era visto costretto a
dar vita a uno Stato su un'isola di 30 chilometri di diametro
' con una popolazione eterogenea e, per tradizione locale, dotata
di un acuto senso degli affari. Egli pensò che fosse necessario
creare una nazione. A partire dalla mancanza di una precisa identità
nazionale. Perciò fece ricorso agli israeliani. A loro
chiese gli strumenti per forgiare una nazione a partire da un
insieme eterogeneo e disordinato. I militari israeliani, con la
loro abituale arroganza, risposero: «Si può fare».
E inviarono una squadra, chiamata i «messicani» per
non suscitare sospetti.
È molto facile ¬ mi disse il mio interlocutore. Si
prendono molti giovani, alla scuola primaria, li si organizza
come un movimento scoutistico, li si imbeve di ideologia nazionalista,
con una storia di Singapore molto semplice, che rompa con tutte
le identità etniche precedenti: si fa come in Israele,
con una lingua comune che prima non parlava nessuno: l'ebraico
(moderno) da noi, qui l'inglese. Una volta tagliati fuori dal
riferimento ai passati familiari, li si rende solidali gli uni
con gli altri. L'esercito sa fare bene queste cose. Si organizza
una polizia efficiente, che cacci senza pietà i dissidenti
o espella gli irriducibili, si crea una mistica della bandiera
e si fa dell'egualitarismo sociale, affinché tutti si rendano
conto del fatto che qui c'è un avvenire. E il giogo è
fatto. In una generazione, si avrà una vera nazione di
Singapore. Noi ci sappiamo fare. Nel VietNam gli americani si
comportano da stupidi. Siamo andati a vedere sul posto per dar
loro qualche consiglio. Smantellare l'apparato comunista non è
difficile, bisogna fare come abbiamo fatto noi con i palestinesi:
ogni uomo ha un prezzo. Basta mettere sul tavolo una pila di dollari
corrispondente al suo prezzo. Poi, occorre reinfiltrarli nell'apparato
nemico e lo si fa scoppiare. Il gioco è fatto.
Il gioco non era fatto. Gli americani hanno lasciato il VietNam
con la coda fra le gambe e Israele non ha fatto scoppiare il movimento
palestinese. C'era qualcosa che sfuggiva allo spirito del manipolatore.
Ho citato questo aneddoto perché mostra il totale cinismo
degli operatori sionisti. Si tratta di ciò che spiriti
penetranti e liberi, come Yeshayahou Leibowitz o Israel Shahak,
hanno chiamato, fin dagli anni Settanta, la «nazificazione»
della società israeliana: il ruolo assolutamente preponderante
di un'ideologia militarista, razzista, ipernazionalista, che impone
le proprie regole a tutti gli aspetti della vita quotidiana, agendo
attraverso l'indottrinamento nelle scuole e nei lunghi periodi
di richiamo alle armi cui devono sottoporsi i ragazzi e le ragazze,
dopo aver servito nell'esercito. È difficilissimo tirarsene
fuori, sopravvivere raggiungendo le regioni più eteree
del libero arbitrio e della riflessione personale. I giovani,
nella maggior parte dei casi, si rifugiano nell'uso generalizzato
della droga o nel piccolo spaccio. Si deve considerare che la
società israeliana stessa è vittima di questo terrorismo
ideologico, che la spinge, in blocco, in un vicolo cieco suicida.
In un'opera famosa, giuntaci dall'antichità, Flavio Giuseppe,
ebreo e cittadino romano, descrive la politica suicida degli ebrei
di Gerusalemme nei confronti dell'impero romano, che pure era
molto tollerante. I sionisti preferiscono, alla storia della caduta
di Gerusalemme, nel 70, quella di Masada, dove gli ultimi partigiani
di un'indipendenza ebraica si suicidarono nel 73, durante l'assedio
da parte dei romani. La storia di Masada, presentata oggi dall'ideologia
sionista come un episodio glorioso, mostra che la bestialità
e l'arroganza create da questa stessa ideologia non hanno limiti.
Il terrore praticato da Israele finisce per essere autodistruttivo
e segni di tale tendenza si scorgono già nel monolito artificiale
della «nazione ebraica», sognata da utopisti völkisch
(razzisti) nel XIX secolo.
Avendo fondato il nuovo Stato su una superiorità militare
che poteva non essere permanente, i dirigenti di Israele, dopo
il 1948, nutrivano una fiducia limitata nell'avvenire. Ben Gurion
manifestava, almeno in privato, uno scetticismo che si abbeverava
alla stessa fonte di quello di Jabotinsky: gli arabi non avrebbero
mai accettato. Inoltre, la guerra del 1948 non era servita a cacciarli
totalmente dal territorio di Israele. Nei confini ne restavano
ancora e questi, che bisognava in un modo o nell'altro considerare
come cittadini, erano sottoposti all'amministrazione militare,
che negava loro qualsiasi diritto.
Fu allora che Ben Gurion si orientò verso l'opzione nucleare.
Gli inglesi e i francesi partecipavano alla corsa all'arma atomica.
Ben Gurion, che era in principio un laburista, si accorse del
fatto che la Francia, dove era predominante la SFIO pretesamente
socialista, costituiva l'anello debole della catena. Gli israeliani
svilupparono allora la doppia strategia che impiegano ancora oggi,
particolarmente nei confronti degli Stati Uniti: stipulare accordi
militari segreti o dal contenuto riservato, introdurre alcuni
uomini, militari o scienziati, nelle amministrazioni straniere
con la scusa della «cooperazione» e impiantare reti
di spionaggio capaci di saccheggiare gli uffici studi e gli arsenali
del paese disposto a «cooperare». Grazie alla presenza
di ebrei compiacenti nei laboratori, nelle società di subappalto
e nei gabinetti ministeriali, essi riescono a infiltrare le filiere
di studio e produzione degli armamenti moderni, a rubarne i piani,
i manuali d'uso e perfino certi prototipi che copiano in Israele.
I primi aerei da caccia israeliani sono copie conformi dei Mirage
francesi e poi è stata la volta degli aerei americani.
Questa doppia strategia è stata messa a nudo , con il sostegno
di documenti, da Pierre Péan nel libro intitolato Les deux
bombes. L'affare Jonathan Pollard negli Stati Uniti ha dimostrato
che questa pratica è continuata fino a oggi. La storia
delle foto satellitari, in parte consegnate dagli americani e
per il resto rubate, è stata analizzata da Seymour Hersch
in The Samson Option.
In breve, il metodo ha permesso la costruzione negli anni Sessanta,
sotto la guida di Shimon Peres, con l'aiuto volontario e involontario
dei francesi, di uno stabilimento per la produzione di armi nucleari
a Dimona nel Negev. La creazione di un arsenale nucleare e la
sua utilizzazione per ricattare gli Stati vicini devono essere
classificate come impiego di un terrore generalizzato. Esistono
eccellenti ragioni per pensare che la conclusione della Guerra
del Kippur, nel 1973, sia stata in gran parte dovuta alla minaccia
israeliana di far saltare la diga di Assuan con ordigni nucleari.
Ciò spiegherebbe anche la successiva docilità da
parte dell'Egitto. Bisogna lasciare ai futuri storici il compito
di valutare il peso di tale ricatto, ma si ricorderà che,
ancora di recente, esso è stato agitato contro l'Iraq e
l'Iran: notizie sfuggite a ogni tipo di controllo ci dicono che,
alla fine del 2003, alcuni sommergibili israeliani navigavano
nel Golfo Persico e che aerei a lungo raggio si tenevano pronti
a effettuare attacchi nucleari contro l'Iran nel caso in cui questo
si fosse dichiarato deciso a progettare e fabbricare a sua volta
armi analoghe. Il precedente della distruzione della centrale
di Osirak mostra che queste minacce non sono solo finzioni. Fondato
sulla forza, Israele non può, per sopravvivere, fare ricorso
ad altro che alla forza. Il dramma è che l'orribile complicità
delle grandi potenze, soprattutto della Francia e degli Stati
Uniti, ha dato a questa banda di pazzi armi assolute, senza la
moderazione introdotta durante la Guerra fredda dall'«equilibrio
del terrore».
Nel 1948 i palestinesi, per la mancanza di un'amministrazione
centrale, non ebbero la possibilità di partecipare in massa
alla difesa del loro paese. Gli eserciti arabi manovrarono male
e non furono ben guidati, fatta eccezione per la Legione Araba
giordana, comandata ed equipaggiata dagli inglesi. La disfatta
delle truppe egiziane fu alla base del colpo di Stato militare
del 1952, che portò al potere un colonnello che aveva combattuto
nel '48, Jamal 'Abd al-Nasser. Negli anni '5556, molti giovani
palestinesi dei campi di profughi passarono alla lotta armata
per recuperare la loro terra. Tra essi, un giovane ingegnere conosciuto
in seguito sotto vari nomi, compreso quello di Yasser Arafat,
che creò Al-Fatah. Sorvegliati e repressi dai servizi segreti
dei paesi arabi in cui si trovavano, questi giovani votati alla
guerriglia si procurarono armi, si infiltrarono in Israele e effettuarono
operazioni di sabotaggio. La reazione israeliana non si fece attendere.
Nel 1956, aggregandosi alla guerra lanciata da inglesi e francesi
contro la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser,
gli israeliani occuparono la Striscia di Gaza, che non avevano
potuto conquistare nel 1948. La caccia ai fedayn nei campi fu
spietata e emblematica di ciò che sono le operazioni israeliane:
massacri puri e semplici. Quando, alcuni mesi dopo, sotto la pressione
internazionale, Israele fu obbligato a evacuare Gaza, si scoprirono
fosse scavate dagli occupanti, con i corpi di centinaia di suppliziati.
Ho visto personalmente le foto a Gaza alcuni anni dopo, ma non
le ho più riviste in seguito, né nella stampa né
altrove... A volte i sionisti, come per giustificarsi, dicono
che i regimi arabi hanno ucciso più palestinesi di loro,
e questo è senz'altro vero. Ma farne una giustificazione
rivela una logica perversa. Si sono fatte meno chiacchiere quando
è stato necessario spiegare che ufficiali israeliani avevano
ordinato di massacrare gli egiziani presi prigionieri nel Sinai
durante la guerra del 1973.
Un grande passo avanti nell'uso del terrorismo c'è stato
dopo l'operazione compiuta a Monaco da un gruppo di palestinesi
chiamato Settembre Nero durante i giochi olimpici del 1972. I
palestinesi avevano progettato di prendere in ostaggio un gruppo
di atleti per ottenere la liberazione di alcune centinaia di prigionieri
orribilmente maltrattati nelle prigioni israeliane. (Se l'opinione
pubblica e i governi occidentali fossero intervenuti per far cessare
quella barbarie, i palestinesi non avrebbero fatto ricorso a una
misura del genere.) Ci sono buone ragioni per pensare che la sparatoria
scatenata all'aeroporto in cui avrebbero dovuto imbarcarsi i palestinesi
e i loro ostaggi sia stata provocata da cecchini israeliani, in
seguito coperti dai tedeschi. Ma è soprattutto il prosieguo
che è rivelatore. Il primo ministro dell'epoca, l'orrenda
Golda Meir, autorizzò la ricerca e l'esecuzione dei dirigenti
palestinesi che gli israeliani ritennero responsabili dell'affare
di Monaco. Per l'Europa girarono allora squadre di assassini a
pagamento, chiamati in gergo kidon, che, appoggiati da ebrei sionisti
locali, iniziarono a uccidere a più non posso. Il nostro
amico Vincent Monteil, ex ufficiale, grande specialista del mondo
musulmano, ex osservatore delle Nazioni Unite nel 1948 a Gerusalemme,
ha fatto uno scrupoloso censimento di queste uccisioni in un libro
intitolato Dossier secret sur Israël et le terrorisme, apparso
nel 1978 presso un piccolo editore, Guy Authier. Poco tempo dopo,
l'editore è scomparso e con lui sono sparite le copie del
libro. Questa campagna di omicidi, più o meno mirati, finì
con l'irritare i governi europei e Israele dovette darsi una calmata.
Ciò che non gli impedì di svolgere successivamente
la sua propaganda sul tema dei magnifici «giustizieri».
Costoro sono sempre degli eroi perché uccidono per la causa
buona, quella della difesa degli sfortunati ebrei, anche quando
questi «sfortunati» siano in procinto di massacrare
gli autentici possessori della Palestina, che a loro non hanno
fatto niente.
Si potrebbero riempire volumi e volumi se si volesse fare la cronaca
completa delle violazioni dei diritti dell'uomo messe in atto
giornalmente dai mezzi di repressione israeliani ¬ esercito,
aviazione, vari corpi di polizia, leggi ingiuste, tribunali di
parte, torturatori nei campi e nelle prigioni (si pensi a Khiyam,
nel sud del Libano) ¬, senza parlare dell'occupazione di territori
vicini ¬ Libano, Egitto, Siria, ecc. Bisognerebbe aggiungere
a questo bilancio, molto più nero, alla lunga, di quello
del defunto Adolf Hitler, l'invasione del Libano nel giugno 1982,
che, nel corso di una guerra civile scatenata dalle manovre israeliane,
vide una campagna di bombardamenti su Beirut con l'impiego di
tutte le armi vietate, comprese le bombe al fosforo, fino a piegare
la resistenza della sinistra libanese e dei palestinesi alleati
in un'ultima lotta. Fu in questo contesto che si inserirono i
ben noti massacri di Sabra e Chatila, voluti e organizzati dal
generale Sharon, allora ministro della difesa del vecchio terrorista
Menachem Begin. Alla fine gli israeliani, subendo perdite per
mano della resistenza libanese, effettuarono una ritirata. La
guerra era durata 18 anni e il Libano era esangue. Questa guerra
aveva incarnato tutti i progetti sionisti di rimodellamento del
Medio Oriente. L'idea, già elaborata sotto Ben Gurion,
consisteva nel mandare in pezzi gli Stati nazionali della regione,
nel dividerli in micro-Stati con base confessionale, impegnati
a confrontarsi, sotto la generosa tutela dello Stato ebraico,
ormai arbitro dei conflitti locali. Fu la sinistra combattente,
presente non solo in Libano e tra i palestinesi, ma anche a Damasco
e a Baghdad, a fermare questa politica di divisione. La sinistra
combattente si esaurì tuttavia in questo sforzo, dissolvendosi
ancor prima del crollo dell'Unione Sovietica, e la funzione militare
di resistenza passò ai musulmani delle varie obbedienze,
che sono i soli, oggi, a resistere all'espansionismo sionista
e all'imperialismo americano nella regione.
All'interno, i palestinesi hanno spontaneamente lanciato movimenti
di resistenza, la prima e la seconda Intifada. La prima non era
armata, ma utilizzava la materia prima locale, le pietre. Gli
israeliani replicavano con armi letali, in particolare con le
pallottole di caucciù, che erano poi biglie d'acciaio ricoperte
da una membrana di caucciù e hanno provocato molti morti.
Le pietre hanno tuttavia convinto i dirigenti israeliani che bisognava
trovare una soluzione, un arrangiamento. Fu quanto avvenne a Oslo
e a Washington. Era facile prevedere che si trattava di un imbroglio:
i sionisti speravano di arruolare i palestinesi in una specie
di polizia incaricata di proteggere la colonizzazione israeliana.
Arafat, per quanto desideroso fosse di collaborare, non disponeva
dei mezzi per convincere chicchessia a svolgere questo ruolo ignobile.
La «pace» siglata a Oslo ha dato modo ai sionisti
di invadere sempre maggior territorio e di spezzettare quello
che restava ai palestinesi, più piccolo ormai dell'insieme
dei Bantustan creati dall'apartheid nell'Africa del Sud. Sette
anni di «pace» hanno prodotto, da parte dei «partigiani
della pace», un'oppressione dieci volte più pesante.
Logicamente, essa è sboccata nella seconda Intifada, questa
volta armata di kalashnikov, alla quale i sionisti hanno subito
replicato ricorrendo al massacro, con i carri armati e l'aviazione.
Oggi, l'esercito israeliano uccide tutti i giorni tra 10 e 15
persone, senza altra ragione se non quella di mantenere l'atmosfera
di terrore. La stampa internazionale cita il fatto in due righe,
senza particolare commozione. I russi uccidono in Cecenia dieci
volte di meno, ma sono denunciati nei giornali dieci volte di
più. I metodi di assassinio si sono arricchiti di un nuovo
strumento di morte, l'elicottero lanciarazzi o il cacciabombardiere
equipaggiato con una bomba da 500 Kg Come si vede, il progresso
esiste.
La cosa più notevole in questo bilancio sinistro è che il terrorismo sionista, che ha manifestato le sue tendenze sanguinarie almeno fin dagli anni Trenta, non è riuscito a terrorizzare i palestinesi. Essi soffrono, muoiono, ma non perdono la determinazione a combattere per i loro diritti elementari. Soluzionibidone, paci interessate, collaboratori stipendiati, tradimenti e corruzioni scivolano su di loro come l'acqua sulle piume di un'anatra. La ragione è semplice: essi percepiscono la realtà dell'oppressione in ogni momento della loro esistenza e nessun trucco da prestigiatori può convincerli che questa realtà non esiste.
Infine, per terminare questa sintesi,
è necessario richiamare un'altra forma di terrorismo, più
dolce, quella che si può definire con precisione terrorismo
intellettuale. Per poter commettere il loro crimine di furto delle
terre e di genocidio, i sionisti hanno bisogno di neutralizzare
l'opinione pubblica internazionale, di paralizzarla, con iniezioni
regolari di «memoria olocaustica» e di racconti mitologici
sulla «sofferenza» supposta degli ebrei nella storia
dell'Europa e del mondo musulmano. Ci manca lo spazio per ricostruire
qui lo svolgimento di tutte le manovre e le offensive contro la
Chiesa cattolica che, storicamente, ha svolto un ruolo determinante
nella protezione delle minoranze ebraiche in Europa. Ogni giorno
si registrano attacchi bassi, ma violenti contro il soglio pontificio
attraverso libri e articoli, a dispetto dei fatti conosciuti.
Si tratta di creare un sentimento di colpevolezza che i sionisti
utilizzano come leva per ottenere i vantaggi e le complicità
di cui hanno bisogno per conservare le loro posizioni. In questo
confronto, si constata come la Chiesa cattolica abbia perso molto
terreno, anche se qui o là si possono osservare vigorosi
combattimenti di retroguardia. I protestanti, quanto a loro, sono
da tempo ostaggi del sionismo che li utilizza in pieno per ottenere
favori politici e finanziari (armamenti gratuiti) dal governo
americano.
Da un punto di vista più generale, sono i ceti intellettuali
a essere oggetto di campagne regolari di intimidazione. Da cinquant'anni,
tutti gli anni o quasi si diffonde la notizia che l'antisemitismo
sta crescendo. Nessuno l'ha mai visto diminuire... Ovunque, istituti
finanziati da ricchi filantropi americani sorvegliano la stampa
e l'opinione pubblica. Se un giornale che esce a Worcester (Regno
Unito), o a Mazamet (Francia), o a Novosibirsk (Russia), o non
importa dove, pubblica uno scritto che indica uno o due ebrei
come corresponsabili di ciò che accade in Palestina, mentre
le comunità ebraiche ufficialmente si vantano della loro
solidarietà senza incrinature nei confronti di Israele,
viene lanciata una campagna. Si denunciano le intenzioni, si denunciano
le persone che hanno dichiarato tali intenzioni o permesso di
dichiararle, le si denuncia ai loro superiori per fargli perdere
il lavoro, chiuder loro le porte dei mezzi di comunicazione, isolarle
e ridurle al silenzio. Orde di funzionari sionisti sono pagate
per fare quest'opera di bassa polizia e di ricatto. Conosciamo
queste agenzie, disponiamo dei loro recapiti, sappiamo che hanno
buoni rapporti con i poteri in carica. Nessuno osa attaccarle.
Fa parte del bon ton criticare i fascismi. È anche alla
moda denigrare lo stalinismo e le sue derive. Si ha (ancora per
un po') il diritto di criticare l'America e il suo imperialismo
in piena espansione. Ma non si avrebbe il diritto di criticare
il sionismo perché ciò equivarrebbe a dar prova
di antisemitismo. Questo metodo ricattatorio, divenuto sistematico,
lancinante, produce un effetto prevedibile: sempre più,
gente si rende conto che l'antisemitismo tradizionale non esiste
più, che si deve combattere l'influenza degli ebrei alleati
alla politica di genocidio che si pratica in Palestina e che bisogna
far cessare questo enorme scandalo: il massacro di un popolo per
rubargli la sua terra. La solidarietà interebraica, intersionista,
apre la strada a una nuova risposta politica, che si opponga con
molta fermezza alla volontà di egemonia mondiale del sionismo
e che rifiuti di fare del pianeta l'ostaggio di qualche pugno
di fanatici razzisti e sanguinari che regnano, speriamo per poco
tempo ancora, sulla terra di Palestina.
13 febbraio 2004
Alcuni libri di apologia del terrore sionista, scritti da sionisti:
Menachem BEGIN, The Revolt, New York, Nash, 1972 [trad.
it.: La rivolta e....fu Israele, Roma, Ciarrapico, s.a.].
J. Bowyer BELL, Terror Out of Zion: Irgun Zvai Leumi, LEHI
and the Palestine underground, 1929-1949, New York, St. Martin
Press, 1977.
Thurston CLARKE, By Blood and Fire: The Attack on the King
David Hotel, New York, Putnam, 1981.
Frontpage Israel: Major Events 1932-1978 As Reflected in the
Front Page of the «Jerusalem Post», Manchester
(NH), Ayer, 1978.
Rudolph W. PATZERT, Running the Palestine Blockade: The Last
Voyage of the Paducah, Annapolis, Naval Institute Press, 1994.
Saul ZADKA, Blood in Zion: How the Jewish Guerrillas Drove
the British Out of Palestine, London-Washington, Brassey's,
1995.
=========================
Tratto da
SUL TERRORISMO
ISRAELIANO
Documentazione raccolta
da Serge Thion
Scritti di N.H. Aruri, R. Bleier, N. Chomsky, N. Giladi, Kh. Nakhleh,
L. Rokach, I. Shahak, A. Weinstein, O. Yinon
Euro 22,00
Edizioni Graphos, (Campetto 4, 16123 Genova) 2004, 250 p.
L'indirizzo elettronico (URL) di questo documento è: <http://aaargh-international.org/ital/STsulter1.html>