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Il carattere necessario del caso Faurisson

Serge Thion


Il caso Faurisson, o meglio, per dargli la sua vera dimensione, la questione di sapere ciò che è davvero accaduto durante la guerra in alcuni campi di concentramento nazisti, non è il primo atto di quella tragicommedia che è l'evoluzione della rappresentazione collettiva del mondo concentrazionario nel pubblico. In Francia, questo prologo è stato scritto da Paul Rassinier con Le Mensonge d'Ulysse, poi con Le Véritable Procès Eichmann ou les Vainqueurs incorrigibles e, soprattutto, con Le Drame des Juifs européens, nel quale esamina alcune delle principali testimonianze sulle camere a gas e smantella lo studio più solido delle statistiche sul numero degli scomparsi nelle comunità ebraiche d'Europa, quello dell'americano Hilberg (The Destruction of the European Jews, Quadrangle Books, Chicago 1961, riedito nel 1967). Il testo tardivo e polemico di Georges Wellers, La "solution finale" et la mythomanie néonazie ("Le Monde Juif", Paris, CDJC, n. 86, aprile-giugno 1977, pp. 41-84), non risponde adesso che molto parzialmente e resta prigioniero delle convenzioni di lettura e d'interpretazione dei documenti di cui Rassinier dimostra l'inconsistenza.

Rassinier è stato violentemente attaccato e si è visto costretto a farsi pubblicare dall'estrema destra. Come dicono alla Vieille Taupe che ha riedito Le Mensonge d'Ulysse: "Quelli che rimproverano a Paul Rassinier di essersi fatto pubblicare da un editore di estrema destra sono quelli che avrebbero voluto che non venisse pubblicato affatto". Ammetto di buon grado che nei suoi scritti si trovano eccessi di linguaggio e, a volte, affermazioni discutibili. Ma discutere non significa respingere e calunniare. Bisognerà pure, un giorno, riabilitare Rassinier.

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Egli ha scritto troppo presto, forse. Anche Faurisson, quindici anni dopo, scrive troppo presto? L'orizzonte è un po' cambiato. Come lamenta una pubblicazione ebraica, vanno scomparendo i "tabù psicologici innalzati attorno agli ebrei e all'ebraismo". L'autore di quest'articolo attribuisce il fenomeno alla "cancellazione nella memoria collettiva del genocidio nazista e alla progressiva diluizione del senso di colpa alimentato successivamente dai non-ebrei. In una parola, il genocidio non paga più e i nostri poveri morti non ci danno più diritto morale su un Occidente sei milioni di volte giudicabile per una punizione" (R. Gérard, Requiem pour une idée acquise, "Information juive", n. 288, Paris, gennaio 1979). E' una verità lapalissana: in nome di che cosa le generazioni del dopoguerra dovrebbero sentirsi colpevoli di atteggiamenti ed atti politici che non sono i loro? Che addirittura, nella maggior parte dei casi, sono l'esatto contrario? I crimini nazisti appartengono esclusivamente agli hítleriani, a rigore ai loro complici, ma sicuramente non a coloro che si sono dimostrati antifascisti ed antirazzisti.

Un altro elemento della dissoluzione progressiva dei tabù in questione è sicuramente stato l'atteggiamento di Israele di fronte alla questione palestinese. Fino alla Guerra dei sei giorni compresa, l'opinione francese era impregnata di una sorta di sionismo da transfert: al crimine dì Auschwitz corrispondeva una riparazione di fatto che era l'esistenza di uno Stato d'Israele miticamente pacifista e socialisteggiante. La nascita della questione palestinese e soprattutto il rifiuto categorico ed assoluto degli israeliani, e con loro dei sionisti, di considerare e persino di cercare una soluzione allo sradicamento massivo di popolazioni che essi avevano provocato, sono serviti da cartina di tornasole: militarismo, intransigenza, bombardamenti di civili, rappresaglie collettive, omicidi politici, questi atteggiamenti aggressivi e questa rigidità di piombo hanno imposto un'altra immagine di Israele che non è più sovrapponibile a quella della riparazione dovuta agli ebrei a causa dei torti recati loro dall'Europa hitIeriana. L'oppresso è diventato l'oppressore, sic transit gloria...

Tutto ciò meriterebbe sicuramente più ampi sviluppi. Mi limito semplicemente a constatare che, a seguito dello sfaldamento di certi tabù, s'è aperto dopo il 1967 uno spazio di discussione sulla politica israeliana e sul sionismo; in altre parole, le accuse ingiu-

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riose di antisemitismo lanciate contro i critici del sionismo non vengono più prese sul serio e non impediscono la discussione. Ci si può chiedere, viste le reazioni suscitate dal caso Faurisson, se esista la possibilità che nasca uno spazio di diszussione sulla realtà, l'ampiezza e le modalità delle persecuzioni hitleriane. Per il momento, tutto è fermo, a causa degli sforzi di coloro che vogliono imbalsamare dei ricordi e imporre il rispetto di un'immagine della storia che non è particolarmente intelligibile. Alcuni non sono lontani dal credere che si stia assistendo alla nascita di una nuova religione, quella dell'olocausto, con corredo di dogmi e officianti. Da parte mia, sono convinto che c'è uno sviamento, che la possibilità di ritrovare e conservare il senso che avevano per le vittime le sofferenze imposte loro dalla tirannia si trova piuttosto tra coloro che cercano di porsi delle domande. L'arsenale delle celebrazioni, dei monumenti e di altri sacrari non è che un travestimento del vero ricordo.

E' in gioco la responsabilità degli intellettuali di sinistra. La scelta è semplicissima: o si rafforzano le posizioni acquisite, sostenendo una storia ufficiale e avallando tutte le sue lacune e le sue scorie in attesa, come nel Deserto dei Tartari, dell'arrivo dei barbari, oppure ci si dà un margine di valutazione critica e si accetta l'idea che c'è motivo, nel passato prossimo, di ripensare avvenimenti che servono da fondamento all'attuale configurazione del mondo. Finora, le reazioni sono state nell'insieme negative. La mia esperienza in materia si riassume pressappoco così: quando si affronta questo problema con qualche vecchio conoscente, la prima reazione è uno choc (è accaduto anche nel mio caso). Poi, dopo un periodo di spiegazione, che è variabile, mi si concede che sia necessaria un'informazione storica precisa, che dopotutto possa porsi la questione. Ma immediatamente avviene il dislocamento della questione: "Ammesso che il problema si ponga, hai pensato alle conseguenze? Se è vero, sarà d'aiuto ai neonazisti, si ripresenterà la questione ebraica, andrà a finire che... ". In altre parole, l'importanza della verità (che non si sa ancora quale sarà, posto che si riesca ad avvicinarsi ad essa) è completamente subordinata all'uso polemico o incantatorio che si prevede di farme o si sospetta che altri ne faranno.

E proprio a questo che si riduce la libertà di pensare presso i nostri chierici: una merce il cui valore è strettamente d'uso. Dinanzi

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alle affermazioni, che mi paiono palesemente provocatorie, di Faurisson, l'intellighenzia s'affretta a svendere i suoi principi. I giornali, le riviste, gli editori e persino i tipografi si tirano indietro perché ne hanno -- chi lo nega? -- la libertà. Non parlo di paura perché essi respingono perfino l'idea di poter temere di affrontare il dibattito. Di conseguenza, grazie alla prodigiosa libertà di cui godiamo, sotto la vigilante protezione della sinistra, abbiamo la scelta di ricorrere al buon vecchio metodo del samizdat.

Abbiamo anche la libertà di farci pubblicare dai nostri nemici politici, provvisti, nell'immaginario della sinistra, di fondi sicuramente inesauribili. Consentiteci di declinare questa generosa offerta. Meditate per un momento su questa situazione e sulle sue conseguenze. Chi potrà uscirne moralmente a testa alta?

12 novembre 1979

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Capitolo sesto, conclusivo, da Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique? Le dossier de l'affaire Faurisson. La question des chambres à gaz, Paris, La Vieille Taupe, 1979, pp. 164-7.
Prima traduzione italiana: Il Caso Faurisson, a cura di Andrea Chersi, [1981], p. 73-6.
Nuova traduzione in Il Caso Faurisson e il revisionismo olocaustico, Graphos, 1997, p.123-6.




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