Quanti si impancano a trinciare spicciative sentenze sul revisionismo
olocaustico attingono a cognizioni così esigue che essi
stessi, se si trattasse di qualunque altro argomento, le giudicherebbero
del tutto insufficienti a permetter loro di aprire bocca; e avrebbero
ragione. Basta guardarsi intorno: nei giornali e nelle riviste
l'antirevisionismo militante è affare di gente che con
il tema non ha neppure quel minimo di dimestichezza che le consentirebbe
di indicare senza svarioni il nominativo dicesi il semplice nominativo
di questo o di quell'esponente dell'indirizzo storico che da essa
viene votato all'esecrazione delle persone dabbene. Una Rossanda
(«Faurrisson»), un Nicola Tranfaglia («Jacques
Faurisson») o un Alberto Burgio («Raissinier»)
ci inducono a considerare con la stessa ilarità di un tempo,
ma ora anche con pacata indulgenza, quel povero diavolo che quaranta
o quarantacinque anni or sono, facendo professione di fiero antimarxismo,
e avendo un qualche sentore di un certo Hegel e di un certo Engels,
ma non essendo in grado di distinguere tra i due, menava fendenti
contro tale Hengel. Gli storpiamenti consueti ai suddetti,
meno appariscenti, ma altrettanto rivelatori, non ci impediranno,
naturalmente, di ammettere in loro quella vastità di cultura
di cui a nessuno sarebbe venuto in mente di far credito al povero
diavolo. Un tratto, nondimeno, li accomuna a quest'ultimo: la
fregola di parlare, con aria debitamente saputa, di una cosa che
a loro è ignota. Con la non piccola differenza, però,
che, diversamente da loro, il povero diavolo non passava, in quello
che Bordiga [*] definì «il pollaio politico italiota»,
per un pubblicista prestigioso o per un polemista temibile, non
aveva alle sue dipendenze un Claudio Canal cui commettere la stesura
di articoli come quello che il «Manifesto» ha dedicato
all'ultimo libro di Ga-raudy, non occupava, infine ad onta della
sua attitudine a pigliar fischi per fiaschi , una cattedra universitaria.
Gente come questa ma non solo essa, purtroppo prenderà sul serio il consistente volume che Florent Brayard ha consacrato non allo studio, ma alla distorsione metodica della figura e dell'opera di Rassinier; e lo prenderà sul serio non tanto per un errore di giudizio, giacché è troppo palpabile il malanimo che pervade tutto il libro perché nel lettore non si desti un senso di diffidenza circa la sua attendibilità, quanto invece perché esso, quali che siano i dubbi che non mancherà di suscitare, sembrerà nondimeno offrire agli antirevisionisti di professione un ricco arsenale di informazioni e argomenti utilizzabili per squalificare, al di là di Ras-sinier, il revisionismo olocaustico in blocco. È un libro che ha l'apparenza dello studio scrupoloso. Non più che l'apparenza; ma l'apparenza c'è, ed è quello che importa, perché fornirà un comodo alibi alla diffidenza, ad uso di chi, avvertendola, vorrà però farla tacere. Le note a piè di pagina sono sovrabbondanti, ogni affermazione si direbbe poggiare su fonti ineccepibilmente individuate, esaminate, citate. E poi, dato fondamentale, è orientato nel senso giusto: fin dal primo rigo della prefazione, infatti, si apprende che quello che si ha tra le mani è «un vrai livre d'histoire», e chi lo garantisce è Pierre Vidal-Naquet, di cui non sappiamo bene quale sia l'autorevolezza nel campo di sua accademica competenza, gli studi sull'antichità classica, ma della cui affidabilità politica è dimostrazione l'essere egli da lungo tempo salito al rango di grande elemosiniere della confraternita dei persecutori del revisionismo una confraternita i cui sistemi di intervento sono tanto limpidi quanto lo erano quelli con i quali, ai suoi giorni, il Sodalitium Pianum si incaricò di recidere i garretti al movimento modernista: salvo poi che allora monsignor Benigni e Pio X non avevano a disposizione un braccio secolare, e così i reprobi, male che andasse, venivano esclusi dalla vita ecclesiale, mentre adesso il braccio secolare c'è e nella libera terra di Francia (e altresì in Germania, in Austria, in Belgio, nel Lussemburgo, in Spagna, in Svizzera), se si dubita delle camere a gas e del genocidio, se si trova che Rassinier e Faurisson e Roques e Butz e Mattogno e Guillaume non hanno torto e lo si dice, può succedere in virtù di un'odiosa legislazione repressiva la cui estensione all'Italia non getterebbe poi nello sconforto (siamo tanto maligni da pensarlo) le figure alte, le coscienze critiche, i grandi vecchi di non si sa quale sinistra di essere puramente e semplicemente estromessi dalla vita civile (Faurisson e Notin informino), quando pure non capiti di peggio. Insomma, il taglio erudito della ricerca e l'ascendente del prefatore potrebbero far sì che, nella generale disinformazione sul tema, il libro di Brayard assurgesse a classico. In questo caso non lo si indicherebbe con il suo titolo: i sunnominati scriverebbero il Brayard, così come si usa scrivere il Tommaseo-Bellini o il Devoto-Oli. Non è senza una ragione che parliamo al condizionale: forse all'assunzione a classico sarà di ostacolo un altro libro sul medesimo tema, quello già annunciato da Nadine Fresco, autrice segnalatasi per astio antirevisionistico fin dal lontano 1980.
Ora, quali che siano per essere le fortune del libro di Brayard, è importante che i suoi lettori quelli, intendiamo, che saranno mossi dall'esigenza di informarsi sul revisionismo, non quelli che vi faranno ricorso per provvedere di un punto d'appoggio "autorevole" la loro preconcetta ostilità nei confronti di una corrente di studio che ai loro occhi ha l'inammissibile colpa di sbriciolare il più largamente diffuso tra i miti del ventesimo secolo abbiano una possibilità, anche se tenue, di chiarirsi le idee sulla natura del ponderoso volume. Carlo Mattogno ne mette in luce il carattere fondamentalmente ciarlatanesco; può farlo in quanto si avvale di un patrimonio di conoscenze che lo colloca nella cerchia ristrettissima, e tale alla scala mondiale, di quegli specialisti che l'argomento trattato pionieristicamente, e meritoriamente, da Rassinier il preteso sterminio degli ebrei ad opera del nazismo lo hanno, come suol dirsi, sulla punta delle dita, documento per documento, nominativo per nominativo, data per data, testimonianza per testimonianza.
L'evoluzione politica di Rassinier (del quale sarà opportuno ricordare che restò sempre un uomo di sinistra), certe scelte di lui dirette ad assicurargli comunque le condizioni minimali per farsi sentire, sono cose evidentemente suscettibili di venire lette in maniere non soltanto differenti, ma opposte. Brayard le legge nella maniera più sfavorevole all'autore della Menzogna di Ulisse, e senza perdere occasione per propalare l'immagine grottesca e scellerata di un Rassinier in camicia bruna; ed è proprio perché strafà che gli accade di incorrere a tratti in illazioni e interpretazioni così manifestamente forzate da lasciare adito alla speranza che qualche lettore, anche nulla sapendo delle repliche di parte revisionista, sia indotto a dubitare della sostenibilità di tutt'intera la lettura propostagli come l'unica possibile dal pupillo di Vidal-Naquet.
Ora, quando si parla di questo aspetto, pur rilevantissimo, del problema Rassinier, siamo sempre, in definitiva, sul terreno di ciò che, a torto o a ragione, si considera come l'opinabile; e non stiamo qui a vagliare criticamente questo concetto, che ha una sua evidente legittimità sul piano empirico. Per vasto che sia, però, lo spazio che può riconoscersi all'opinabile, v'è un altro spazio in cui l'opinabile non ha diritti da far valere: è lo spazio in cui si iscrive la materialità dei fenomeni, lo spazio in cui due e due fanno quattro, e non tre o cinque; in cui un documento contiene quella data parola oppure non la contiene. Ebbene, Brayard non si è limitato allo spazio dell'opinabile, per larghi che si sia nel misurarlo: ha invaso anche quello del non-opinabile. L'ha invaso non già, si faccia bene attenzione, affrontando anche uno solo dei tanti problemi di ordine materiale sulla posizione e soluzione dei quali il revisionismo fonda le proprie conclusioni, bensì eccependo sulla correttezza di Rassinier nel formulare, trattare e risolvere per quel tanto che ne risolse o ne avviò a soluzione: e non fu poco quei problemi; ed è così che l'intera indagine rassinieriana può venire rappresentata come un mediocre, anzi, come un sordido gioco di bussolotti suggerito da un torvo nazisteggiare.
E qui il libro denuncia la propria vera indole: perché
Bra-yard ha, molto semplicemente, barato. Queste dense
pagine di Mattogno, che colgono l'autore del «vrai livre
d'histoire» in flagranza di falsificazione, hanno il non
piccolo pregio di dimostrarlo.
PREMESA ad une rielaborazione del capitolo
settimo del libro Diliettanti allo sbaraglio, Pierre Vidal-Naquet,
Georges Wellers, Deborah Lipstad, Till Bastian, Florent Brayard
et allii contro il revisionismo storico, pubblicato dalle
Edizioni di Ar e repubblicato.dalla Graphos, Campetto 4, 16123
Genova. (L. 10.000).
Il libretto era titolato: Rassinier, il revisionismo olocaustico
et il loro critici Florent Brayard, Graphos, dicembre 1996,
50 p.,