Note
1. [Andrea Chersi (a c.)l, Il caso Faurisson, A. Chersi, Castenedolo (Brescia), s.a. (1981). -- Di questo volumetto viene qui ripresa, in nuova traduzione, la scelta antologica, mentre i cappelli sono di nuova stesura.
2. Robert Faurisson, Bilan de l'affaire Garaudy/abbé Pierre. Samiszdat, 1o novembre 1996, p. 18.
3. Uno storico che, ben lungi dall'essere favorevole al revisionismo olocaustico, si permette però di non inchinarsi al verbo di Vidal-Naquet (secondo il quale "si discute sui revisionisti, non si discute con i revisionisti") è Giovanni Sabbatucci, allievo di De Felice e suo successore, crediamo, nella cattedra: " [...l D'ora innanzi si discuta sulle singole affermazioni degli storici [...l In genere si parla di "revisionismo" quando qualcuno mette in discussione una storia sacra. Ma allora, se esiste una storia sacra, è giusto che esista anche il revisionismo [...l è giunto il momento di rimettere in discussione sia le ragioni degli ortodossi sia quelle dei revisionisti. Fra questi ultimi, ad esempio, potremmo collocare coloro che negano l'Olocausto, come Irving e Faurisson [...l" ("Corriere della sera", 31 dicembre 1997; nostro il corsivo). L'operazione consistente nell'introdurre nel discorso Irving e Faurisson a titolo d'esempio, e affrettandosi a precisare che di essi "non si può certo dire che abbiano ragione", è, a modo suo esemplare: esemplare della cautela di cui uno studioso che dimostra di essere tutt'altro che pavido ritiene di dover circondare l'enunciazione di un punto di vista la cui ragionevolezza godrebbe di riconoscimento unanime quando si trattasse di un qualsiasi problema stonco che non fosse quello delle finalità, dei modi di attuazione e degli esiti della persecuzione antiebraica ad opera del nazismo.
Sabbatucci, del resto, non è, tra gli storici universitari italiani, il solo che non sta ai detti di Vidal-Naquet. In particolare ne abbiamo in mente un altro, che nessuno può accusare di essere di destra e che ha, sì, bruciato il suo granello d'incenso attaccando il revisionismo olocaustico, ma che si è segnalato per l'equilibno di qualche sua presa di posizione e del quale apprezziamo la volontà di non partecipare a imprese di demonizzazione. Crediamo di comprendere che egli pensi che, per dare diritto di cittadinanza ad una vi si on e non mitologi c a e non convenzi on ale dell a ston a degl i scorsi decenni, occorra preliminarrnente dispiegare un'azione di vasto respiro diretta a confortare di gran copia di esempi la nozione della non-eccezionalità, della normalità delle revisioni, anche eclatanti. Senonché il respiro è, per dir così, davvero troppo vasto e le cose sono considerate in maniera tanto indiretta da neanche venir evocate: e dunque le implicazioni di quello che egli scrive sfuggono del tutto, temiamo, ai più tra i suoi lettori. I quali, magari, apprendono una lezione di metodo, senza però che ciò scalfisca percettibilmente le loro resistenze intenori ad applicare il metodo appreso ad un determinato ordine di questioni che richiedono soltanto di venir studiate molto normalmente a livello della loro materialità.
4. L'organo dei verdi ha, sotto il tit. Antisemitismo romano, informato il suo pubblico in questi termini: "Serpeggia nuovamente un inquietante antisemitismo a Roma e dintorni. Athos De Luca si sta però già muovendo: al Senato i Verdi stanno predisponendo un disegno di legge che introduca nel nostro ordinamento, in analogia a quanto già fatto in Germania e Inghilterra, il reato nei confronti di chi vilipendia l'Olocausto e lo sterminio a opera dei nazisti." ("Notizie verdi", a. VII, n. 1, 18 gennaio '97; corsivo nostro). Qui, intanto, c'è qualcuno che vilipendia la lingua italiana.
Un'osservazione in margine: in Inghilterra la leggemuseruola non è ancora in vigore; tanto meno lo era in gennaio. Ne ha preannunciata una Tony Blair nel corso della campagna elettorale. In precedenza l'ipotesi di una repressione legale del revisionismo aveva destato qualche perplessità anche in seno alla comunità ebraica inglese.
Il darsi da fare del De Luca e del suo gruppo senatoriale va collegato a tutto un atteggiamento della direzione dei verdi inteso ad una captatio benevolentiae (specie in ambiente romano) la quale, se il gioco riuscisse, dirotterebbe verso il Sole che ride una manciata di voti di cui prima d'ora hanno beneficiato largamente i pannelliani, del cui numero era in passato il De Luca stesso. Parliamo di un atteggiamento della direzione dei verdi perché non v'è niente di casuale nella presa di posizione del portavoce, Manconi, di cui alla sua lettera apparsa nel "Corriere della Sera" dell'l 11 luglio, lettera che verte sulla delicata questione nella quale non entriamo in quanto non avente rapporto con il tema di cui ci stiamo occupando se nella circoncisione maschile, messa tangenzialmente in causa in un'interrogazione presentata da due senatori leghisti con il chiaro scopo di creare imbarazzo al governo, sia ravvisabile o meno una lesione dell'integrità fisica della persona, così come sono considerate, e sono, lesioni di tal natura le orribili pratiche della circoncisione femminile e dell'infibulazione, pratiche presenti nella tradizione di talune componenti dell'immigrazione extracomunitana.
5. E' solo per massiccia ignoranza, per inammissibile leggerezza o per pura e semplice disonestà che i revisionisti vengono correntemente tacciati di sostenere una tesi la cui assurdità è palese, la tesi dell'inesistenza dei campi di concentramento tedeschi. Tra i cento esempi che potremmo recare di formulazione di questa stoltissima accusa l'ultimo in ordine di tempo è quello offertoci da "Mosaico di pace", riv. mens. promossa da Pax Christi, aprile '97, p.12 (Francesco Comina - Cornelia Dell'Eva). Vale la pena di ricordare che il revisionismo olocaustico ha preso le mosse propno dall'analisi dell'istituzione concentrazionaria "normale" nella sua realizzazione nazista e che questa analisi, mettendo in ìuce i meccanismi sociali e sociologici dei processi selettivi ai quali era sottoposta, con conseguenze dramrnatiche, la gran massa dei detenuti, poneva il problema se i campi detti nel dopoguerra di sterminio avessero davvero avuto finalità di sterminio.
6. Pare un destino: quando sono quelle della demografia ebraica le cifre si mettono a ballare, anche quando si riferiscono alla consistenza presente di singole comunità. Nella "Repubblica" dell'8 ottobre '96 Furio Colombo se la prendeva con la nozione di lobby ebraica (non è il solo: di recente anche il presidente della Camera ha ammonito che si comincia col parlare di lobby ebraica e si finisce con Auschwitz) e con l'uso che di tale categona era stato fatto incidentalmente da alcuni media in quel torno di tempo. L'articolo merita di venir letto per intero: è una vera e propria manifestazione di disistima nella capacità di discernimento del pubblico cui era diretto. A questo pubblico il biancocrinito ciarlatano, ammannendo la favola di un ebraismo statunitense il cui peso sociale e politico sarebbe all'incirca quello di una piuma, si rivolgeva con ragionamentini da asilo infantile o da ricreatorio parrocchiale. E ricorreva all'argomento di una marginalità sancita e garantita dai numeri stessi: "Ebrei degli Stati Uniti? Tre milioni (3). Popolazione USA? Duecentossantotto milioni" (corsivo nostro). Ecco fatti sparire d'incanto almeno altri tre milioni di ebrei. E si noti il delizioso dettaglio del numero dato prima in lettere e poi in cifra. -- Non stiamo neppure ad entrare nel merito di questo pseudoargomento, con il quale si vorrebbe liquidare la fondatezza di un insieme di constatazioni che sono alla portata di tutti e che nell'82 Baget Bozzo sintetizzò felicemente quando, proprio sulle pagine di "Repubblica", rilevò che l'America non è in Israele, mentre Israele è in America.
7. A proposito di quel clima sarebbero parecchie le cose da dire. Non è questo il luogo per farlo. Non bisogna sottovalutare, d'altra parte, la capacità dell'opinione pubblica di afferTare per conto proprio, ad onta della manipolazione cui è sottoposta di continuo, I'essenziale della faccenda: non tutto l'essenziale, è vero, ma buona parte sì. Del che si è manifestata consapevole la signora Zevi, i cui interventi sono stati informati all'idea che occorresse, almeno nella forma, disebreizzare per quanto possibile la questione. C'è da chiedersi se si siano mossi completamente all'unisono con lei altri esponenti del suo ambiente. Le parole di Riccardo Pacifici, che ha carica comunitaria di consigliere (anzi, ora è vicepresidente) e che ha "guidato la rivolta" (cioè la gazzarra successiva alla sentenza del 1· agosto '96) e ha "condotto la trattativa" (ma chi ha autorizzato la trattativa aveva il potere di farlo?), sono state raccolte dall'"Unità" del 3 agosto. A seguito della "rivolta", dunque, "gli stessi giudici, I'avvocato difensore e lo stesso Priebke sono diventati ostaggio della folla inferocita, che aveva deciso di barricarsi in quel corridoio". Il Pacifici, allora, va a parlare con il presidente Quistelli "in rappresentanza della folla che aveva deciso di passare nel tribunale tutta la notte e di restare lì finché non si fosse ottenuto qualcosa" (a far ottenere qualcosa ci penserà poi il ministro della giustizia in persona, validamente coadiuvato dal sottosegretario alla Difesa Brutti). Quistelli invita il Pacifici a "far qualcosa per mandare via la gente, altrimenti [--dice--l dovete assumervi la responsabilità delle conseguenze " (ecco uno che non ha mangiato la foglia). Cosa risponde il Pacifici? "Ho detto che avrei accettato di far sgomberare se me lo avesse chiesto il mio rabbino". Il resto non interessa. Domanda: chi spiegherà mai a questo Pacifici, visto che né Flick né Brutti glielo hanno spiegato, che per strana che la cosa gli possa parere in questo paese, che è anche il suo e che desideriamo rimanga anche il suo, il sistema costituzionale non prevede in nessuna maniera che le leggi vigenti e le disposizioni emanate in applicazione delle stesse siano soggette all'exequatur del suo rabbino?
8. Non ci si può esimere dal rilevare con quanta frequenza, una volta emesso il verdetto subito svuotato di effetti pratici con manovra azzeccagarbugliesca, e poi cassato, si è sentita in bocca di fior di personaggi, ed enunciata come cosa ovvi a, la con siderazione che quello militare non era "il tribunale adatto". Il tribunale adatto? Stiamo scherzando? Ma i nostri "uomini d'ordine" la genìa che oggi occupa per intero la scena hanno un qualche sospetto, un sospetto anche vago, di che cosa sia il giudice naturale? La loro nozione di "Stato di diritto" è dunque tale da far credere loro seriamente che si possa, caso per caso, scegliere tra i vari tribunali presenti sulla piazza quello che dà maggiori garanzie di pronunciare la sentenza che toma gradita a lorsignori? Se verrà varata, come ci sembra probabile, la leggemuseruola contro i revisionisti, ne vedremo delle belle.
9. Circa i rechercheurs salariés si veda l'appendice, p. 38 s.
10. W. D. Rubinstein, in "National Review", 21 giugno 1979, p. 639, cit. da R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m'accusent de falsifier l'Histoire. La question des chambres à gaz, La Vieille Taupe, 1980, p. 268. -- Del sociologo australiano si leggerà utilmente La sinistra, la destra e gli ebrei, tr. it., Il Mulino, 1994, libro che si raccomanda per la nettezza del linguaggio, esente da quell'ipocnsia che si direbbe di prammatica nella letteratura sionista ad uso dei gentili.
11. ... quel colore della pelle al quale, come a semplice livrea climatica comune a ceppi razziali differenti, annetteva così poca importanza Vacher de Lapouge, autore ignoto ai più, e, tra i più, a George Mosse, il cui libro sulla storia delle ideologie razzistiche in Europa non può essere considerato se non di livello mode stamente dilettanti stic o (c iò c he non ha impedito che la Laterza ne pubblicasse due edizioni). Vedi, di V. de L., Les Sélections sociales, Fontemoing, Paris, 1896, pp. 128-33. -- Per l'intelligibilità del richiamo che si fa alla scarsa importanza da lui annessa al colore della pelle (e di quello all'ignoranza del Mosse), preciseremo che Georges Vacher de Lapouge (1854-1936) la cui opera antroposociologica (i tratti fondamentali della quale egli enunciò ed elaborò al tempo in cui militava nel Parti ouvrier francais, il partito di Guesde e Lafargue) non è suscettibile di venire liquidata come puramente ideologica fu il maggior teorizzatore della superiorità dell'Homo Europaeus, il dolicocefalo-biondo-occhiceruleo originario del Nord del continente.
Ciò che pensavamo di ricordare di una remota lettura de Il razzismo in Europa. Dalle origini all'olocausto, di G. L. Mosse (Laterza, 1985), ci ha procurato un infortunio che è indispensabile segnalare al lettore: a quello, almeno, del presente estratto, perché, purtroppo, ci è impossibile estendere la segnalazione a quello de Il caso Faurisson e il revisionismo olocaustico. L'infortunio consiste nel fatto che un falso ricordo ci ha indotti a dichiarare ignoto al Mosse il nome stesso di Vacher de Lapouge (p. 43, nota 11).
Un controllo, ahinoi, fuori tempo massimo ci fa toccare con mano che, al contrario di quanto avevamo troppo leggermente affermato, al Mosse il nome del Lapouge, per essere noto, era noto (cap. IV, pp. 59-70): non molto più che il nome, dato che le pagine dedicate all'antroposociologo francese formicolano di fraintendimenti, di errori, di vere e proprie invenzioni. Al punto, aggiungiamo, da lasciar pensare che l'autore statunitense ne abbia scritto con il corredo di una conoscenza alla quale ci sembra da preferire la pura e semplice ignoranza; e così dev'esserci sembrato anche tanti anni orsono: e da qui il falso ricordo. Se si renderà necessario, torneremo sull'argomento.
12. In tema di influenza. Di recente la Mursia ha ritirato dal commercio un libro, opera di un cattolico conservatore, che aveva suscitato alti lai negli ambienti rappresentativi dell'ebraismo in Italia: Gli Ebrei e la Chiesa, 1933 - 1945, del sac. Vitaliano Mattioli, 1997; vedi il "Corriere della Sera", 16 luglio (Michele Brambilla). Questa la spiegazione ufficiale (la fornisce Sergio Bollani, addetto, nella circostanza, alle relazioni esteme della casa editrice): "Le critiche [al librol arrivano da fonti tali che non si può pensare che non siano motivate" (ibid.). Parole non proprio chiarissime. L'espressione critiche motivate sembra stare per critiche fondate. E la fondatezza loro non pare evincersi dal loro contenuto, dalle motivazioni che esse adducono. Se queste critiche hanno validità, non è tanto in sé e per sé che l'hanno, non è tanto per il loro argomentare stringente, quanto, piuttosto, deriva, la loro validità, dall'autorevolezza delle fonti da cui emanano, dall'impensabilità che fonti come quelle cui genericamente la dichiarazione del Bollani si riferisce abbiano mai a formulare critiche men che fondate. Il carattere motivato, fondato, di tali critiche carattere supposto in base all'autorevolezza riconosciuta alle loro fonti , questo carattere, dunque, a sua volta motiva il ritiro del libro che tanto era dispiaciuto. Rimangono avvolte nel mistero le fonti dell'autorevolezza delle fonti.
Se le cose stanno così (e come dubitarne, se è la Mursia stessa a dire che stanno così?), allora siamo noi, noi che scriviamo, a dover confessare che, nella nostra estraneità a certe faccende, eravamo le mille miglia lontani dal supporre che qui da ultimo la sfera di competenza delle banche avesse conosciuto un così straordinario allargamento da risultarne sostanzialmente mutata la ragion d'essere di questi istituti; da conferire a questi istituti indole preminente di centri di riferimento nelle cose della cultura; da erigerli, più specificamente, in autorità indiscusse in materia di studi storici. Nulla sapendo di questa felice metamorfosi, ci fuorviava (lo ammetteremo candidamente) un'idea superata di che cosa sia una banca, e questa idea superata ci faceva credere che l'intervento di una banca presso un'azienda editoriale non avesse precisamente la natura di un intervento culturale e che, anzi, fosse proprio questo ad assicurare all'intervento quell'efficacia di cui il caso del libro del Mattioli offre l'illustrazione. Piacevolmente sorpresi, prendiamo atto del nostro errore. Ci nmane, nondimeno, una curiosità: ma le banche si occupano ancora di danaro?
Quanto al libro in questione, il caso ce ne ha messo tra le mani una copia. Non sapremmo dire se questo studio possa in tutti i suoi aspetti venire considerato tipico della cultura del cattolicesimo conservatore; se lo fosse, bisognerebbe formarsi un'idea ben modesta di questa cultura. La trasandatezza, che pure è sorprendentemente accentuata, della scrittura è ancora l'inconveniente minore. La conoscenza della bibliografia è assai lacunosa per ciò che ha rapporto con vari elementi del quadro generale in cui si colloca la questione; il più spesso è superficiale la trattazione dei singoli punti "accessori". Testi cui non può accordarsi alcun credito figurano come fonti. Sullo sfondo ma non tanto sullo sfondo campeggia una concezione banalmente cospirazionistica della stona: sempre la stessa! dall'abate Barruel in poi. Date le premesse, è pressoché inevitabile che l'antigiudaismo del Mattioli, che è quello di sempre della chiesa preconciliare, veicoli contenuti del cui carattere antisemitico o, in altri casi, della cui prossimità all 'anti semiti smo non pare rendersi conto l'autore, che non si con s i dera antisemita e che probabilmente non lo è.
Detto questo, e constatato che la sopravvenuta indisponibilità del libro non è in nessun modo di nocumento agli studi, bisogna aggiungere che quelle che vanno segnalate, e lo abbiamo fatto, sono le circostanze in cui si è verificato il ritiro del libro dal commercio e la natura delle pressioni che hanno deciso la casa editrice a questo passo.
13. Un esempio tra i tanti, significativo perché lo traiamo non da comportamenti della sfera comunitaria ufficiale, da comportamenti dei rappresentanti, bensì da comportamenti dei rappresentati: la partecipazione emotiva come a cosa concernente il proprio Stato con la quale le elezioni israeliane del '96 sono state seguite in ambito romano. Al l'epoca la "Repubblica" pubblicò uno o due corrispondenze di grande suggestività.
14. Sull'eziologia dell'antisemitismo gente di sofisticata cultura ci racconta in tutta serietà che "il complesso di Edipo è vissuto e sperimentato dall'antisemita come un insulto narcisistico", che l'antisemita "proietta questo insulto sull'ebreo cui staffida il ruolo di padre", che "questa scelta dell'ebreo è determinata dal fatto che l'ebreo è nella situazione unica di rappresentare contemporaneamente il padre onnipotente e il padre castrato" (23o Congresso psicoanalitico internazionale, Stoccolma, 1963). Dobbiamo la citazione a P. B. Medawar, Difesa della scienza, Armando, 1978, p. 66.
15. A proposito di Voltaire. Cose che all'odierno lettore italiano nescono difficili da immaginare, da parecchio tempo sono diventate ordinaria amministrazione in Francia, che è forse il paese in cui l'insupportable police juive de la penseé (felice definizione coniata dalla defunta Annie Kriegel, antirevisionista a tutta prova ed ebrea essa stessa per nascita) imperversa più che in qualunque altro in Europa. Chi lo crederà? Oggi Voltaire viene sottoposto a censura! E la censura è occulta! Chi vuol leggere il Distionnaire philosophique ha a disposizione una sedicente édition intégrale (Livre de Poche) la quale intégrale non lo è per niente: il testo, infatti, vi è stato espurgato alla chetichella dei passi che non vanno a genio ai cento o duecento cólti tangheri che, con il favore di un insieme di circostanze, si sono autodelegati all'esercizio di quell'alta funzione di polizia. Il torto della comunità ebraica francese è quello di lasciar fare. E' vero che le attenuanti non le mancano (e ciò vale per tutte le comunità ebraiche d'Europa: non lo si ripeterà mai abbastanza); tuttavia, essa lascia fare al di là di ogni ammissibile misura. Oggi la Francia è il paese in cui il Betar (il corpo paramilitare sionista di tradizione jabotinskijana) può fare impunemente il buono e il cattivo tempo fin sulla soglia delle aule di tribunale ogni volta che vi si processa un revisionista: la gendarmeria finge di non vedere. Ed è altresì il paese in cui nell'86 (ignoriamo se ora le cose siano cambiate, nella forma se non nella sostanza) Francoise Fabius-Castro, consorte dell'allora primo ministro, in un'affollata assemblea dell'associazione Socialisme [!] et Judaisme, poteva dichiarare quanto segue: "Straordinaria novità nel comportamento politico, la sinistra [!] ha permesso a delle milizie ebraiche di installarsi in certi quartieri, in rue des Rosiers a Parigi, ma anche a Tolosa, a Marsiglia, a Strasburgo. Queste milizie hanno contatti regolari con il ministro degli Intemi" ("Le Monde", 7 marzo 1986; conferma con dettagli da parte dell'Agence télégraphique juive, 12 marzo). Va registrato lo sbigottimento di uno o due esponenti dell'ebraismo organizzato francese. Ma il ministro degli Interni si guardò bene dallo smentire o dal rettificare!
16. La definizione, cosiddetta di Bebel (ma in realtà dovuta al deputato democratico au stri aco F. Kronawetter) dell 'antisemitismo come "socialismo degli imbecilli", la tira fuori, anche in ciò sulla falsariga dell'inevitabile Vidal-Naquet, tale Guido Caldiron a proposito del revisionismo di sinistra italiano; vedi, del C., Liaisons romaines (titolo alludente a pretesi legami estrema sinistra estrema destra), nel volume collettaneo Négationnistes: les chiffonniers de l'histoire, Golias et Syllepse, 1997, pp. 179-92. Al revisionismo di sinistra questo autore considera in qualche modo non estranee il che è piuttosto comico le posizioni di quel professor Burgio riguardo al quale rinviamo il lettore a quanto rilevammo in appendice alla Menzogna di Ulisse, Graphos, p. 247 s., nota. -- Il citato volume collettaneo si direbbe (e per certe parti sicuramente è) una replica opposta da una cosca di antirevisionisti all'iniziativa concretatasi nella pubblicazione di un altro vol. collettaneo realizzato da un'altra cosca di antirevisionisti, Libertaires et "ultragauche" contre le négationnisme, Reflex, 1996; tra le due cosche si svolge un'aspra diatriba concemente il ralliement all'antirevisionismo operato da un gruppetto di brillanti nullità in fama di essere state vicine al revisionismo qualcosa come vent'anni or sono e il cui mea culpa viene giudicato soddisfacente dalla équipe di Libertaires, elusivo ed ambiguo da quella di Négationnistes. Di quest'ultima fa parte (come autore di due contributi e coautore di un terzo) un tizio che di recente (25 giugno) ha visto accolto ne "L'Humanité" un suo articoletto nel quale, in prosecuzione della diatriba, l'infamia è spinta al punto di abbozzare con riferimento a taluni scritti di uno che è, sì, del gruppetto, ma che revisionista non è mai stato un amalgama tra revisionismo olocaustico e pedofilia. Vedi Serge Thion, L'Ahuri des poubelles, 3 luglio 1997, che riporta in extenso il fecale articoletto.
17. E' necessario ricordare come, nonostante qualche episodica espressione dettata soprattutto se non, addirittura, esclusivamente dalla giusta esigenza di semplificare le cose all'estremo onde favorirne la comprensione da parte di masse paurosamente arretrate sotto il rapporto civile e culturale, e perciò esposte al rischio di prestare orecchio alle suggestioni antisemitiche e pogromiste che erano una costante della propaganda controrivoluzionaria, Lenin non abbia mai modificato il suo convincimento circa la natura nonnazionale dell'ebraicità. "Gli ebrei non sono una nazione", ripeteva nel '1920 parlando con il vecchio bolscevico Simon Dimanstein, che per molti anni ebbe una parte di primo piano nel lavoro comunista in ambiente ebraico sovietico e che sarebbe poi caduto vittima delle repressioni staliniane (Henri Slovès, L'Etat juif de l'Union Sovietique, Les Presses d'aujourd'hui, Paris, 1982, p. 66). Si noterà che questo giudizio veniva formulato in presenza di un ebraismo che, come quello dell'ex impero zarista, era, anche se ormai in decadimento, ancora dotato di un'unità linguistica e psicologica sconosciuta a quello dei paesi d'Occidente.
18. Dato che qui si sfiora il tema del rapporto tra nazionalità e Stato, v'è un punto del quale va fatta almeno menzione, e cioè che, detto nel modo più schematico, è la nazionalità a costituire la premessa temporale (e non solo temporale) dello Stato, non lo Stato a costituire la premessa temporale della nazionalità. Lo Stato è poi a sua volta un fattore di plasmazione della nazione e della nazionalità (cose che possono venir distinte visto che a volte la distinzione viene fatta solo a patto di tener presente che l'una non può esistere senza l'altra). Un buon esempio del ruolo dello Stato in tal senso lo fornisce proprio Israele, entro le cui istituzioni, e anche per effetto di esse, si è formata una nazionalità, un popolo, a partire da quell'entità subnazionale che sono sempre stati gli ebrei diasporici in generale (mentre per quelli dell'impero zarista non può escludersi che fino a buona parte dell'Ottocento fosse loro propria la qualità di na2ione incompleta nel senso renneriano dell'espressione, qualità che, in ogni caso, era poi andata evaporando nei quaranta o cinquant'anni che precedettero la Rivoluzione d'Ottobre per il decomporsi della struttura economica e sociale nei cui interstizi gli ebrei avevano trovato per secoli la loro nicchia ecologica). La vitalità nazionale del popolo sviluppatosi in Israele rappresenta un problema che solo il futuro può sciogliere; per noi è fuori discussione che, comunque sia sia formato, questo popolo, per il fatto stesso di esistere, possiede i normali diritti nazionali; e l'esercizio di questi dintti nessuno, almeno nell'essenziale, contesterebbe il giorno in cui venisse meno con tutte le conseguenze (esse sì, normalizzatrici) del caso I'egemonia ideologica e politica esercitata sulla nazione israeliana dall'imperialismo sionista (vedi Sionismo e Medio Oriente, Gruppo comunista internazionalista autonomo, Milano, 1984). -- Ma, tornando a Stato e nazionalità, il punto sopra ricordato è fondamentalissimo: è la preesistenza della nazionalità a dare ragione dell'esistenza dello Stato nazionale, non viceversa.
E questo punto è l'esatto contrario di ciò che si vide costretta a sostenere Fiamma Nirenstein quando, scoppiata da qualche settimana l'Intifada, alle obiezioni circa l'occupazione sionista della terra palestinese che le venivano mosse nel corso di un dialogo televisivo con un gruppo di studenti medl osò rispondere come segue: che quella terra aveva potuto venir legittimamente occupata perché un loro Stato i palestinesi non ce l'avevano. Il che significava negare ai palestinesi la qualità di popolo cioè di soggetto collettivo dotato del diritto di possesso della terra su cui si è formato e vive da secoli a causa dell'inesistenza di uno Stato palestinese! Posizione tutt'altro che nuova tra i sionisti (per la Meir, ad es., Stato o non Stato, i palestinesi non esistevano, punto e basta, mentre, a sentire il Nobel per la pace Begin, per esistere, esistevano, però erano "animali a due zampe"); ma posizione che ispirava una risposta, oltre che balorda, nschiosa per chi se la permetteva: permettendoselab infatti, la Nirenstein si metteva in condizione di sentirsi domandare come facessero i sionisti prima della nascita di Israele a essere, come pretendevano di essere, i rappresentanti di un popolo, se questo asserito popolo non aveva un proprio Stato nazionale, e dunque mancava di quello che propno lei aveva l'imprudenza, e l'impudenza, di indicare come il prerequisito necessario ai fini del possesso della qualità di popolo. Se la domanda le fosse stata posta, allora si sarebbe vista questa Nirenstein messa nell'obbligo di scegliere tra il tacere o l'espnmersi lei, a quel tempo (o. se non a quel tempo, di lì a non molto) direttrice dell'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv, e quindi funzionaria dello Stato italiano in termini tali da non consentire dubbi quanto alla iattanza sciovinistica e alla protervia razzistica dell'identitarismo sionista e della sua pretesa di prescrivere al mondo intero l'adozione di un intollerabile sistema di due pesi e due misure.
Qualche anno più tardi la direttrice dell'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv doveva sermoneggiare i suoi concittadini legali di allora in seguito essa si è trasferita in Israele sul pencolo che tra loro prendesse piede la figura del "razzista democratico"! (Vedi, di lei, Il razzista democratico, Mondadori, 1990; in sovracoperta, sotto il titolo, queste parole d'oro: "Il razzista è sempre l'altro. Ma se fossi razzista anch'io?": dubbio salutare, dal quale, evidentemente ma anche incomprensibilmente, I'autrice non si sentiva toccata.)
[49]
Se l'attenzione con cui li si legge non oltrepassa il livello
che permette tutt'al più di formarsi un'idea generale,
o, piuttosto, un'impressione di ciò che scrivono, se non
si adoperano quattr'occhi, e ben aperti, i rechercheurs salariés
(1) passeranno per gente di ineccepibile scrupolosità.
Per pagine e pagine non c'è, nei loro lavori, affermazione,
anche secondaria, anche ovvia, che non sia confortata da un puntuale
richiamo alle fonti. Ma poi, com'è, come non è,
ecco che ti imbatti in ciò che non ti aspettavi, e che
non ti aspettavi perché un'acribia così ostentata
pareva escludere ogni eventualità del genere: ti accorgi
che il richiamo alle fonti è assente precisamente là
dove sarebbe più necessario trovarlo. Un Pier Paolo Poggio,
ad esempio, ha sentenziato -- senza che nulla di quello che aveva
detto in precedenza e di quello che avrebbe detto in prosieguo
giustificasse anche solo alla lontana un'asserzione siffatta --
che "non c'è un unico caso in cui ci sia stata la
capacità, da parte di chi si proclama apertamente revisionista
sulla questione delle camere a gas e della realtà effettuale
del genocidio, di resistere ad uno slittamento progressivo sulle
posizioni della destra, più o meno estrema" ("Marxismo
[sicl oggi", ott.dic. '95): ebbene il lettore cercherà
invano la menzione di una fonte qualsiasi, di una circostanza
qualsiasi, che renda plausibile quella che è enunciata
con la categoricità di una constatazione palmare. Invece,
niente di niente. Stesso discorso per Francesco Germinario, sodale
del Poggio in antirevisionismo e nell'appartenenza alla Fondazione
Micheletti, presso la quale il secondo è, appunto, ricercatore.
Di revisionismo negli ultimi tre anni
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questo Germinario ha scritto. purtroppo. in svariate riviste (ne "L'Utopia concreta", in "Marxismo [sicl oggi", nei "Quaderni bresciani" forse ne dimentichiamo qualcuna). Cose su cui non mette conto fermarsi. Ora è il quadrimestrale "Giano" ad ospitare nel n. 24 (2), aprile '97. pp 117-37 -- in un dossier dal titolo abbastanza singolare. che si direbbe tradire il sospetto che fino ad oggi la storioglafia ortodossa abbia trattato la cosidetta Shoà altrimenti che come un evento storico: Storicizzare l'"Olocausto" , un lavoro che prende ad argomento il revisionismo in Italia e un paragrafo del quale è dedicato al revisionismo di sinistma. Ottantasette note non sono poche da far seguire a quindici pagine e mezza di testo, e parecchie di queste note sono più che semplici rinvii a fonti Eppure, anche qui si ripropone il sorprendente fenomeno del nessun rinvio ad una fonte o ad una circostanza qualunque proprio là dove trovare un riferimento, e possibilmente dettagliato, corrisponderebbe alle più naturali aspettative sia di chi viene messo in causa. sia dello stesso lettore di "Giano": perché. alla fin fine, si deve presumere che un lettore pur incline, come dev'esserlo quello di "Giallo", ad un comune pensare e sentire, quanto meno in fatto di revisionismo, con il Germinario non percio rinunci alla propria autonomia di giudizio, e sia, dunque, desideroso di vedere adeguatamente giustificati i rilievi più gravi.
Con tutta evidenza, le citazioni che dovrebbero esserci e invece non ci sono, non ci sono perché i valentuomini non hanno un bel niente da citare. L'eclissi cul soggiace lo scrupolo dell'affermazione debitamente documentata è, dunque, un'eclissi forzosa. Fissato questo, ci si può domandare cosa mai li induca ad affermazioni a sostegno delle quali essi per primi sanno bene di non essere in grado di recare elemento alcuno.
La risposta va cercata nello sbilenco edif1cio a pretese argomentative tirato su da Vidal-Naquet in funzione antirevisionistica e in quell'immagine del revisionismo che costituisce la pietra angolare dell'edificio medesimo: quell'immagine che il guru transalpino mette in circolazione all'ingrosso e al dettaglio da poco meno di vent'anni e che tanto più facilmente viene accolta quanto più coincide con quella che si forma spontanea, avendovi il proprio terreno di cultura, nella testa di gente la quale vive nella persuasione di "essere di sinistra". E' con l'antirevisionismo del guru, infatti, che i Germinario e Poggio sono in sintonia, piuttosto che con quello (peraltro convergente a tutti gli effetti
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con il primo) dei Klarsfeld. Lanzmann e Wiesel, ad esclusiva ispirazione sionistica e scopertamente giudeocentrico. Non fu per caso che, posto di fronte alle perspicue e dettagliate contestazioni che gli erano state mosse da Carlo Mattogno, il quale, da quel conoscitore che è della materia, entrava nel merito di quelle questioni attinenti al tema olocaustico e soprattutto alla critica revisionistica su cui in precedenza il Germinario aveva allegramente, ma non innocentemente, spropositato, questi, nella stringente necessità di opporre una fìn de non recevoir, si appellò alla con segna di Vidal-Naquet, la quale cadeva a puntino per la funzione alibistica che era chiamata a svolgere ("Marxismo [sic] oggi". n. 3, sett.dic. '96). Ora, questa consegna, anziché far perno sul revisionismo, fa perno sui revisionisti: non si discute, dice l'antichista, con i revisionisti, si discute, tra antirevisionisti, sui revisionisti. Il precetto presuppone e sottende quella che il gros bonnet vorrebbe accreditare come una verità evidente di per sé, non bisognosa, dunque, di dimostrazioni: una verità apodittica: e questa pretesa verità apodittica si sostanzia in un'affermazione che concerne la natura del revisionismo. -- Quando ci si sarà chiariti su questa pietra angolare dello sbilenco edificio si comprenderà anche perché i giovani di studlo del gros bonnet, passando dal generale allo specifico, siano. anche loro, recisi nell'affermare ciò che, al pari di lui, sono nell'impossibilità di provare: del che, poi, sono consapevoli quanto lo è lui.
Com'è noto, per Vidal-Naquet e consorti i revisionisti altro non sarebbero che una "piccola banda abietta" dedita ad un'assidua opera di imbellettamento delle sembianze del regime hitleriano (e puntualmente il Germinario il suo lavoro lo intitola Le ciprie di Auschwitz ): scopo di quest'opera: la riabilitazione storica. politica, morale del regime nazista. Il perseguimento di questo scopo comporterebbe un vero e proprio sovvertimento della storia di appena ieri in ciò che essa avrebbe di più sicuro e meno controvertibile: lo sterminio di un numero variabile di milioni di ebrei, sterminio che, per essere stato sistematico, avrebbe corrisposto ad un piano (o all'equivalente di un piano) e rimanderebbe o ad una volontà unitaria o a più volontà convergenti. Esso sarebbe stato attuato soprattutto a mezzo di uno strumento caratteristico, quei giganteschi "mattatoi chimici" (Faurisson) che sarebbero state le camere a gas. -- Invitando a rifiutare il dibattito con i revisionisti e a discutere, invece, su di loro, Vidal-Naquet tende a due obiettivi. Da un lato vuole estromettere dal campo delle possibllità ogni confronto, perché a seguito di un confronto le ragiom su cui i revisionisti fanno poggiare le loro conclusioni giungerebbero, e non deformate, a piena conoscenza del pubblico, lo scetticismo dilaghereb-
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be e gli effetti ne riuscirebbero disastrosi per il mito olocaustico, il quale inevitabilmente finirebbe per apparire per quello che è: un mito. Dall'altro lato, e sempre in funzione della sopravvivenza del mito, egli vuol far passare l'idea che discutendo tra antirevisionisti si capisce sui revisionisti (ai quali trova comodo prestare quell'uniformità ideologlca che a essi, disomogenei ideologicamente come invece in realtà sono, non compete affatto) si discuterà il revixionismo stesso, e lo si discuterà nell'unica maniera in cui esso è suscettibile di venir discusso ossia ecco la pretesa verità apodittica che da poco meno di vent'anni il guru si industria di inchiodare nei cervelli come un puro e semplice prodotto ideologico integrante una falsificazione totale della storia, come il parto di certe teste politicamente motivate a partorirlo, e politicamente motivate a partorirlo perché si tratta delle teste di un certo numero di nazisti. I dati materiali e fattuali cui il revisionismo si richiama e che esso fa risalire a precise indagini non avrebbero in realtà altra sorgente fuor che quelle teste: chiunque abbia letto una sola pagina del Vidal-Naquet antirevisionista e vi abbia riflettuto appena un po' è in grado di rendere testimonianza del fatto che questo, e non altro, è il nucleo centrale, l'anima stessa dell'argomentare di lui, sempre che lo si possa definire un argomentare. Discutere sui revisionisti costaltro può significare se non discutere delle pretese loro ideologie, degli effetti dell'operare di queste pretese loro ideologie sulle loro teste? Quelle teste e quelle ideologie, ecco la sorgente. Invenzioni, insomma: il revisionismo come insieme di affermazioni menzognere rifacentisi a risultante sedicentemente fattuali, ma in realtà fittizie, simulate, alle quali i revisionisti vorrebbero conferire credibilità asserendole risalenti a ricerche empiriche di varia indole (di critica dei documenti, di fisica, di chimica, di demografia) le quali, invece, sono anch'esse simulate una messa in scena, il revisionismo, e nient'altro. Invenzioni, dunque, sulle quali, sui contenuti delle quali, non ha senso, dice il guru, aprire un discorso, mentre ha senso svolgerne uno sui revisionisti in quanto un discorso incentrato sui revisionisti metterà in rilievo la matrice ideologica nazista, ben s'intende del revisionismo e di quelle fantasie malevole che i revisionisti vorrebbero far passare per datl empmcamente accertati sul terreno dell'indagine storica e delle molteplici discipline sussidiarie dell'indagine storica.
Questo il verbo vidalnaquettiano. L'apporto di Vidal-Naquet alla campagna oscurantistica contro il revisionismo -- l'apporto palese, vogliamo dire, perché poi non si è gros bonnets per nulla, e ai gros bonnets sono accessibili sedi di intervento e opportunità di maneggi di cui Il pubbllco quasi mai ha notizia, e, quando l'ha, l'ha soltanto frammen-
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taria o indiretta -- consiste tutto nella non particolarmente geniale escogitazione di una formula strategica. L'esigenza che vi sta alla base è un'esigenza di elusione: si tratta, precisamente di eludere dei fatti, una quantità imponente di fatti portati alla luce dalle indagini revisionistiche; e a tal fine egli suggerice una formula la quale, mentre dà per inteso che i fatti, quei fatti, non sarebbero tali, e non sarebbero tali perché, molto semplicemente, inventati dalla "piccola banda abietta", farà valere una prassi che comporterà che gli "addetti ai lavori" (cioè, in questo caso, gente che per definizione si attiene alla versione canonica) non già parlino di essi che sono, appunto, i contenuti empiricamente fondati del revisionismo, i quali vengono, nella sostanza, totalmente evacuati dal discorso: meno se ne parla e meglio è, chiaramente , bensì vi si rifèriscano come se, anziché fatti, fossero, lo si è detto, prodotti ideologici, invenzioni ispirate da una data e ben individuata ideologia. -- E con ciò, con un mediocre giochetto che deve la propria fortuna non all'abilità del prestigiatore, ma ad uno stato di cose che fa sì che nelI'informazione e nell'università tutti coloro che si rendono conto che di un giochetto si tratta e che il re è nudo si guardino bene, pour cause, dal dare a divedere di essersene accorti con il giochetto, cioè, della fittizia riduzione, effettuata grazie al consensus omnium, di quei contenuti, che sono concreti e fattuali, a gratuite asserzioni informate all'odio per gli ebrei e sgorganti da una ben precisa matrice ideologica, e in pari tempo con il sottrarsi al confronto con i revisionisti su quei contenuti, confronto che la ripetibilità e, dunque, la controllabilità delle indagini da loro condotte renderebbero decisivo, e che proprio per questo va evitato a tutti i costi, ci si illude di liberarsi dell'incomodo: anche se oggi, a differenza dei rechercheurs salariés e di altri giullari e caudatari, probabilmente i Vidal-Naquet, i Bédarida ed eminenti personaggi di pari calibro si illudono meno di quanto si illudessero quindici o anche solo dieci anni fa. E' eloquente la circostanza che i più avvertiti tra gli antirevisionisti si siano persuasi che sarebbe indispensabile cambiare registro: indiretta ammissione di quanto, soprattutto negli ultimi vent'anni, la critica revisionista abbia scavato in lungo, in largo e in profondità, e di quanto, perciò, sia oggi traballante una leggenda la cui sopravvivenza era subordinata alla condizione che nessuno, mai, vi guardasse dentro con l'inconcepibile pretesa che i conti tornassero. Per la leggenda della donazione costantiniana, opportunamente richiamata dal Butz, risultò esiziale che, quando i tempi furono maturi. vi guardasse dentro il revisionista Lorenzo Valla. Anche lui era uno che voleva che i conti tornassero: non tornavano. Ha ragioni da vendere Vidal-Naquet quando dice che la revisione rientra nel normale operare dello
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storico. Il suo torto è di dimenticarsene quando la posta della revisione è quella certa posta. -- E vero che, dopo Lorenzo Valla, il papa si tenne Roma e annessi per altri quattro secoli. Il mito dello sterminio resterà in piedi molto meno.
Il Germinario fa ormai figura di esperto italiano di cose revisionistiche. Bisogna intendersi. Lo è, e solo in maniera assai parziale, di letteratura revisionistica, non di revisionismo. La differenza non è di poco momento. Ed ecco perché diciamo "solo in maniera assai parziale": il suo indagare nel campo della letteratura revisionistica è tutto puntato non sulla trattazione della tematica connessa al cosiddetto olocausto trattazione che caratteristicamente quella letteratura affronta a livello della materialità dei fatti (non vi sono segni che il problema del preteso sterminio lo interessi come tale e la sua informazione, piuttosto che sommaria, è rudimentale), bensì solo su quanto in essa gli sembra affetire al tessuto ideologico di cui il revisionismo non sarebbe che il prolungamento, all'ambito ideologico dal quale è dato per scontato che nasca il revisionismo olocaustico e/o nei quale si inscrivono la recezione di esso e gli sviluppi ideologici, per l'appunto, e politici cui la recezione dà luogo. Questo particolare taglio (esso sì, quanto di più ideologico vi possa essere) nella conoscenza di quella letteratura rinvia direttamente alla verità apodittica di Vidal-Naquet in comune con il quale il nostro rechercheur ha alcuni tratti dellaforma menti.s, come la superficialità e la carente dimestichezza con il rigore logico (3), anzi, si identifica immediatamente con essa, con la "verità", cioè, secondo cui il revisionismo apparterrebbe intrinsecamente alla sf`era ideologica e in essa si risolverebbe per intero e senza residui: le famose invenzioni, insomma. E' molto dubbio, tutto sommato, che egli abbia sentore di
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quanto il mito vacilli. L'avesse, e avesse conoscenza dell'effettiva portata delle acquisizioni conoscitive che lo fanno vacillare, ne sarebbe forse preoccupato, ma certo non scriverebbe diversamente da come scrive. Infatti, per lui, come per il gros bonnet e consorti, la leggenda ha carattere di verità politica, ed è di questa "verità" politica che va sostenuta la collimanza con la verità storica. Il corollario tacito di questa posizione è che, se la collimanza non c'è, tanto peggio per la verità storica. Quella che importa è la verità politica. E va bene. Ma al servizio di quale politica sta poi questa pretesa verità?
Sta al servizio del più convenzionale degli antifascismi. "Di sinistra"? Sì, "di sinistra", se si adoperano le parole nel significato conferito loro dall'uso corrente. Ma quanto sia realmente di sinistra questa "sinistra" è un altro paio di maniche. Non possiamo occuparcene ora, evidentemente. Ai nostri fini, qui, importa questo: che quella che veglia sulla sacra fiamma del più convenzionale degli antifascismi è una "sinistra" agli occhi della quale, stringi stringi, un nazismo che conservasse in pieno la sua indole di dittatura del grande capitale (e relative misure di stampo socialdemocratico, misure consentite dalla massiccia presenza del Made in Germany sul mercato mondiale e imposte dalla duplice necessità di rinvigorire la domanda interna e di assicurare al regime, al di là della pace sociale coatta, quel consenso di massa che la coazione non poteva assicurargli), un nazismo che conservasse perciò tutti i suoi caratteri socialmente, politicamente, culturalmente e
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moralmente regressivi, ma al tempo stesso venisse spogliato delle sue stigmate di più efferata inumanità a seguito di una riconosciuta insussistenza della più schiacciante tra le accuse che gli vengono rivolte un nazismo siffatto, privato di quella che non rammentiamo quale testa d'uovo nostrana definì la sua sostanza sterministica, non sarebbe più veramente nazismo: a tal punto lo sterminio degli ebrei viene percepito come elemento costitutivo dell'identità storica del nazismo, che la natura nazista del regime hitleriano garantisce da sola agli occhi di questa gente la storicità dello sterminio. E se mai si dovesse ammettere che vi è stata, sì, una vergognosa persecuzione antisemita, ma che essa non è sfociata in un tentativo di soppressione dell'intera etnia, il nazismo, appunto, non sarebbe nazismo, e allora per costoro crollerebbe il mondo.
Come ha messo in risalto Pierre Guillaume scrivendo di Pressac (che ora non è più tanto in auge, ma che solo due o tre anni fa veniva indicato come colui che aveva inferto un colpo mortale al revisionismo), anche a destra c'è gente che sente e pensa al medesimo modo. Ma nella cosiddetta sinistra è la regola; e questa regola è tutt'uno con l'accoglimento del postulato che stravolge il secondo conflitto mondiale di cui si fa passare in secondo o terzo o decimo piano la fondamentale natura interimperialistica in scontro tra civiltà e barbarie, e l'esito di questo scontro in provvidenziale vittoria del Bene sul Male assoluto.
I trionfatori del '45 e i loro eredi non potevano e non possono desiderare di più quanto ad interiorizzazione dell'impostura di cui hanno fatto serto alla loro crociata del '39-45 e che per almeno mezzo secolo ha dato loro titolo anche morale alla supremazia planetaria. Quanto addentro siano penetrate le radici dell'impostura lo dice l'antirevisionismo di un Vidal-Naquet proprio perché esso non è quello a fisionomia tribale di Klarsfeld e compagnia. E lo dice il silenzio che è stato fatto intorno ad un libro come quello del Bacque, che, pure, con la faccenda ol ocaustic a non ha rapporto al cu no , al me n o in via diretta . -- E adesso possiamo venire al paragrafo dedicato dal Germinario al revisionismo di sinistra.
Ci guarderemo bene, naturalmente, dal perdere il nostro tempo e dal farne perdere ad altri per tutto ciò che nella prosa del rechercheur salarié si può trovare di caratterizzazioni stereotipate ("estremismo bordighiano", p. 123), di interpretazioni caricaturali ("per noi Auschwitz, Treblinka e tutto l'universo concentrazionario avrebbero costituito una forma di o spedal i zzazi one mal ri u sc ita, una specie di thomasmanni an a Davos ecc." p. 124), di citazioni troncate al punto giusto (infratesto,
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p. 126) (4), di sfondamenti di usci aperti e di idiozie allo stato puro (per il revisionismo di sinistra "la decostruzione della Shoah aveva un obiettivo squisitamente politico", e, rispettivamente, "la Shoah sarebbe stata una specie di rivoluzione contro ll Capitale", ibid.). Sollecita, invece, una chiosa ciò che segue:
Malgrado [...l il richiamo all'ortodossia [marxista] l'operazione [nostra] di porre le basi di un negazionismo di sinistra risultava frustrata dalla necessità di ricorrere alle argomentazioni del negazionismo neonazista (ibid.).
Tutto sta nel capirsi. Il Germinario ci sta dicendo salvo dire l'opposto subito appresso: ancora un po' di pazienza e lo vedremo che forse noi personalmente nazisti, o neonazisti che dir si voglia, non lo siamo, ma che lo erano e lo sono i Rassinier, i Faurisson, i Butz. L'organetto di Barberia suona sempre la stessa musica, questa non è altro che la famosa verità apodittica. Vale la pena di fermarsi su quelle "argomentazioni del negazionismo neonazista" solo per accennare ad un tema su cui forse perfino il rechercheur è in grado di articolare una riflessione.
Veda, il Germinario: i personaggi testé menzionati -- e i Burg, i Cole, i Guillaume, i Thion e via enumerando -- non erano e non sono affatto dei nazisti. Ma mettiamo per assurdo che lo fossero e lo siano: quale criterio epistemologico permetterebbe a lui di stabilire che la loro qualità di nazisti farebbe sì che il contenuto dei loro enunciati non potrebbe essere, alla stregua della materialità dei fatti, altro che menzognero? Hic Rhodus, hic salta. -- Veda, ancora: è chiaro che, dandosi quel caso che abbiamo formulato per assurdo, a quegli enunciati si dovrebbe riservare un'attenzione informata alla massima diffidenza: quella stessa diffidenza, per intendersi, che va riservata agli enunciati dei rechercheurs. Intrinsecamente considerato, il revisionismo non è di destra o di sinistra più di quanto lo siano l'entomologia, la geografia botanica o la teoria dei numeri; ma, poiché lo fanno degli uomini in carne ed ossa, e poiché la materia e l'ambiente non lasciano all'obiettività e alla pacatezza se non quello spazio che il singolo revisionista è capace di assicurar loro, I'uomo di sinistra, consapevole del
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fatto che le opzioni ideologiche possono sempre interferire, e quanto!, anche nella più empirica delle ricerche, evidentemente diffiderà di ciò che l'uomo di destra presenta come un risultato. Ma se, poniamo, è l'uomo di destra a dichiarare, sulla base di indagini che egli renda di pubblica ragione in ogni dettaglio, e perciò suscettibili di venir controllate solo che lo si voglia, che le analisi fisicochimiche di campioni di intonaci e di laterizi prelevati dalle strutture murarie di edifici di Auschwitz di cui il testimoniale, la tradizione, la giurisprudenza e la storiografia sterminazionistica più accreditata affermano concordi che non servirono per gassazioni omicide denunciano una residua presenza di prodotti di reazione dello Zyklon B di gran lunga superiore a quella riscontrata nei campioni di intonaci e laterizi prelevati dalle strutture murarie di edifici di cui le medesime fonti asseriscono con pari concordia che servirono, essi sì, per gassazioni omicide, di massa e prolungatesi per anni --, se è l'uomo di destra a mettere in luce questo, e se, poniamo ancora, la risposta è il sequestro delle pubblicazioni in cui lo mette in luce, il processo intentato a quest'uomo, la radiazione dall'ordine professionale di appartenenza, le multe, la galera, il nauseante vociare dei media sul suo essere un bieco nazista (ciò che spiegherebbe tutto), allora chi politicamente è agli antipodi di quest'uomo trova nella propria qualità di uomo di sinistra e, prima ancora, nella propria qualità di essere ragionevole un motivo validissimo per giudicare, minimo minimo minimot fortissimamente sospetto il fatto che , in lu ogo di c onfutare l' as serto con opportune con troanalisi e con una critica a fondo delle procedure seguite nell'analisi, si proclami superflua, palesemente superflua, la confutazione e si ricorra a quei mezzi repressivi che probabilmente ci allieteranno anche in Italia di qui a non molto tempo. Se, poi, l'uomo di sinistra è già un revisionista, nei risultati di quelle analisi vedrà la conferma di una dimostrazione che è già stata data: data al punto che adesso un Baynac, non sospettabile di simpatie per noi, addita agli antirevisionisti non già il compito di dimostrare che le camere a gas sono esistite, bensì quello di dimostrare che non possono non essere esistite, il che è un po' differente. E con ciò torniamo al punto quo ante: sotto, si espliciti, se ci si riesce, quel tal criterio epistemologico e se ne dimostri la ricevibilità . Ridurre il revisionismo olocaustico ad una messa in scena in cui la fanno da protagonisti un Rassinier-Rosenberg, un Faurisson-Himmler, un Butz-Gunther-Rasse e via di questo passo è un'operazione che ancora paga, non v'è dubbio, ma risulta sempre meno convincente. Strologhino qualcosa di nuovo, i rechercheurs: alla fin fine, un salario lo prendono (o dovrebbero prenderlo).
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E finalmente arriviamo alla subitanea eclissi dello scrupolo citatono e documentario. Si legga con la dovuta attenzione la chiusa del paragrafo:
L[a nostra] ambizione di impiantare, in un panorama teoricopolitico che pretendeva di richiamarsi al marxismo, argomenti di ben diversa provenienza ideologica, nazista, ma soprattutto neonazista, conduceva ad un inevitabile slittamento verso queste ultime posizioni (ibid.).
Notiamo di passata come il postulato di base del vidalnaquettismo l'asserita natura ideologica del revisionismo olocaustico venga, nelI'occorrenza, diluito nella categoria di provenienza ideologica: siamo ancora a Rassinier-Rosenberg eccetera, però il Germinario ha dovuto convenire sottobanco che se "in un panorama teoricopolitico che pretendeva di richiamarsi al marxismo" avessimo mai nutrito "I'ambizione di impiantare" diciamo il Führerprinzip, sarebbe stata una cosa, e che impiantarvi le vedute revisionistiche è, sotto il profilo logico, politico, morale, tutt'altra cosa. Prendiamone atto. Si parva licet, ricordiamo che di questi "impianti" -- "impianti" non di elementi dottrinari, ma di materiali storici, statistici, storiconaturalistici, ecc., utilizzabili ai fini della definizi one dei suoi atteggiamenti su questioni spec ifiche la nostra scuola, a principiare da Marx, ne ha fatti ogni volta che il farlo le è sembrato opportuno: non ha mai soggiaciuto, essa, a forme controproducenti di autarchia.
Ma quell'"ambizione", dice il rechercheur salarié, "conduceva ad un inevitabile slittamento verso queste ultime posizioni", verso, cioè, le posizioni "naziste, ma soprattutto neonaziste". Vediamo di capire di cosa stia chiacchierando. Del nostro antisionismo, no: per lui tanto poco esso costituisce uno "slittamento" che qualche rigo sopra egli, grossolanamente, ma in maniera sostanzialmente giusta, parla del sionismo come di "una soluzione della questione ebraica giudicata [da noil reazionaria e non rispondente ai principi del marxismo" (ibid.). Dunque, I'antisionismo non c'entra. D'altro canto, egli non dice (dirlo sarebbe dare un po' troppo risalto al carattere autoreferenziale e tautologico del discorso antirevisionistico) che l'adozione di quegli argomenti, che egli vorrebbe gabellare come "di provenienza ideologica nazista, ma soprattutto neonazista", sia già lo "slittamento": magari è quello che ha in mente; ma, per dirlo, non lo dice. E' un'altra la cosa che dice. Egli si esprime in termini che, fino a che le parole significano qualcosa, suonano così: il nostro "slittamento" verso il nazismo, "slittamento" reso, dice lui, "inevitabile" dall'adozione di quegli argomenti, è s u c c e s s i v o a l l ' a d o z i o n e
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m e d e s i m a. E, naturalmente, né noi né il lettore si ha il bene di venir rinviati in un testo, ricordiamolo sempre, di quindici pagine e mezza seguite da ottantasette note -- ad una fonte o ad una circostanza qualsiasi.
La domanda che facciamo è molto semplice: di quale "slittamento" parIa costui? O tira fuori tutto quello che crede di sapere, oppure si rassegni a sentirsi dire che la sua non è altro che una spudorata calunnia.
In questa seconda evenienza bisognerà ammettere che le attenuanti non gli mancano: nel pantano dell'antirevisionismo di professione è invalso il convincimento che contro uno della "piccola banda abietta" tutto sia lecito. Non si è sentito un Vidal-Naquet dichiarare nel '92 ad una giornalista americana: "Odio Faurisson. Se potessi lo ucciderei personalmente"? (5) E' fin troppo naturale che un Germinario creda di poter gettare una sua personale manciata di mota.
Un ultimo punto. Non ci è del tutto sconosciuto come procedano le cose nella redazione di una rivista; e sta bene. Ma è ammissibile che il direttore non si curi di controllare se accuse come questa, indeterminate, ma non perciò meno gravi, siano o non siano corredate di un rinvio ad una pezza d'appoggio? Se poi la pezza d'appoggio è fasulla, pace: lì comincia la responsabilità dell'autore. Ma, senza contestazione possibile, quella del direttore si spinge fino all'accertamento del fatto che il rinvio ci sia. Se non adempie a questa sua funzione, che corrisponde innanzitutto ad un obbligo morale, che ci sta a fare un direttore?
Ci è accaduto di sentire Luigi Cortesi, che è il direttore di "Giano", autodefinirsi "un vecchio turatiano". Ecco: non sarebbe male che il "vecchio turatiano" avesse sempre presente che ci si può decentemente richiamare a Filippo Turati solo a patto di svolgere il proprio delicato ruolo con quella coscienziosità e quell'abito di correttezza dai quali, per riconoscimento unanime, il galantuomo che dirigeva la "Critica social e" non si discostò mai, neppure di un millimetro. Se no, si renderà, magari, un servizio alla "menzogna trionfante che passa", e ci dispiace di dover constatare che questo servizio Cortesi glielo ha reso, ma di certo si fa un torto a Turati e a quanto di migliore il suo nome evoca. E' quasi un paradosso che si sia proprio noi a doverlo ricordare.
NOTE (Un rechercheur... )
1.) Categoria che ricalchiamo -- e non in base ad analogie esteriori -- su quella di philosophes salariés definita ai suoi tempi da Giuseppe Ferrari.
2.) Numero pubblicato con un contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
3.) Tanto per riferirci a qualcosa che non riguarda noi, si veda in "Giano" come banali associazioni di idee -- ossia l'inciampo peggiore che si possa immaginare per chi voglia fare analisi seria -- bastino a far diagnosticare al Germinario come "biologico", o addinttura "decisamente biologico", I'antisemitlsmo di uno, Franco Freda, che antisemita, in effetti, lo è, ma lo è, cosa alquanto nota (e che non si arriva a comprendere come possa non esserlo ad un ricercatore della Micheletti), da evoliano, ciò che lo pone al polo opposto di ogni biologizzazione dell'antisemitismo (p. 119), e l'antisemitismo di un altro. Richard Harwood, di cui sarà anche possibile, e finanche probabile, ma non è affatto certo, che sia un antisemita (per una precedente accusa in tal senso mossa ad altro proposito all'Harwood dal Germinario, si veda Carlo Mattogno, Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, Edd. di Ar, 1996, p. 247 s.), e sul carattere, biologico o "spirituale", dell'antisemitismo del quale, se antisemitismo c'è, non si può proprio dir nulla (p. 122): bei saggi della penetrazione analitica consentita da un procedere ad orecchio tutt'altro che episodico. Si considen -- capitolo logica -- che al Germinario la diagnosi è suggerita, nel primo caso, da una dichiarazione del Freda riguardo alla quasifisicità della sua repulsione per gli ebrei; nel secondo caso dalla circostanza che l'Harwood ricorre, è vero, alla categoria di razza (peraltro in un contesto in cui l'accento cade sulla differenza culturale e biologica -- cioè sull'elemento rappresentato dalle comspondenti peculiarità così come esse si sono stoncamente sedimentate all'interno dei singoli quadri nazionali --, e non sull'elemento dell'ineguaglianza), ma vi ricorre con riferimento alle immigrazioni di colore, e non già con riferimento agli ebrei. Come se esistesse un rapporto tra la sensazione provata dal Freda e la forma particolare che l'antisemitismo assume nella sua testa! E come se il razzismo che sembra da ascrivere all'Harwood dovesse necessariamente comportare antisemitismo, e l'antisemitismo, ove presente, dovesse necessariamente nfarsi a motivazioni della medesima natura di quelle alle quali si rifa, se vi si rifa, il razzismo di lui! E se non ridi, di che rider suoli? -- Ai giochetti e alle furbate del Germinano, nonché alla sua desolante impreparazione, Mattogno dedica alcune pagine (234-49) dell'op. cit., che è tra le cose migliori della letteratura revisionistica internazionale.
4.) Va segnalato al lettore che un passo di un nostro scritto, così come lo riporta il rechercheur (infratesto, p. 124), acquista, per l'omissione di un non (ultimo rigo), un significato che è l'esatto opposto di quello che esso ha. Tutto ben ponderato, non giureremmo che l'omissione di questo non risalga proprio a quel che si dice un errore.
5.) Eric Delcroix, La Police de la pensée contre le revisionnisme. Du Jugement de Nuremberg à la loi FabiusGayssot, Diffusion: RHR, 1994, p. 113.
[Errata corrigata]
++++++++++++++
Saggio introduttivo di Cesare Saletta a Il Caso Faurisson e
il revisionismo olocaustico, Graphos, 1997, pp. 11-60.