BERLINO -- Già la scorsa estate, quando uscì negli Stati Uniti (da una piccola casa editrice inglese, perché gli editori americani l'avevano rifiutato) il libro di Norman Finkelstein su L'industria dell'Olocausto provocò molte reazioni in Germania (ora pubblicate dall'editore Piper con il titolo Esiste davvero un'industria dell'Olocausto?).
Norman Finkelstein era fino a quel momento uno sconosciuto, docente in uno sconosciuto college dello Stato di New York. Se non fosse stato un ebreo figlio di sopravvissuti ai campi di sterminio, nessuno avrebbe probabilmente fatto caso a quel florilegio di accuse, in parte riprese da studi più seri, che contengono certamente delle verità, ma sempre presentate senza nessuna argomentazione a sostegno di una vis polemica che appare così gratuita.
La sua tesi principale è che nel dopoguerra una ristretta lobby ebraica insediatasi nel Congresso ebraico mondiale e nella Jewish Claims Conference ha trasformato l'Olocausto in un affare, unicamente per il proprio tornaconto, per mantenere posizioni di potere e fare i propri interessi, spesso anche a danno delle vere vittime del genocidio. L'altra tesi, ripresa, per sua stessa ammissione, dallo storico dell'Università di Chicago Peter Novick, che ha presentato in questi giorni il suo libro L'Olocausto nella vita americana, è che il genocidio è sempre più al centro dell1identità ebraicoamericana, e della cultura americana in generale. Novick, ebreo anche lui, ne analizza le ragioni storiche, come quella che in mondo sempre più secolarizzato gli ebrei hanno trovato nell'Olocausto qualcosa che sostituiva la religione; mentre Finkelstein vi vede solo un complotto israeliano per distogliere, attraverso la memoria del genocidio, l'attenzione dalla politica di Israele verso i palestinesi. Finkelstein è in questi in Germania a presentare la traduzione tedesca del libro.
Paradossalmente tutti i giornali gli dedicano pagine e pagine
pur chiedendosi allo stesso tempo perché studiosi e giornalisti
debbano occuparsi di un pamphlet, che lo storico Michael Brenner
ha definito «un grandioso studio patologico sul suo autore».
Uno studio che si poteva fare in vivo mercoledì scorso,
nella sala Urania di Berlino, dove Finkelstein ha presentato il
suo libro. Con il viso immobile e senza espressione qualunque
cosa accadesse in sala (dove il pubblico è venuto alle
mani), e con i continui riferimenti a quello che diceva sua madre,
Finkelstein era il ritratto di un uomo che ha fatto proprio il
trauma dei genitori (entrambi gravemente segnati dai campi di
sterminio) e non riesce ad uscire dalla gabbia dei loro ricordi.
Quando qualcuno gli ha chiesto se aveva dei documenti a sostegno delle sue accuse, l'autore ha risposto ricordando che, come è scritto nel sottotitolo dell'edizione inglese, le sue sono «riflessioni sullo sfruttamento della sofferenza ebraica». La sua rabbia, ha ammesso, nasce dal fatto che la madre ha avuto solo 3.500 dollari di risarcimenti mentre altri sopravvissuti hanno goduto di pensioni a vita. Chi decideva erano unicamente le organizzazioni ebraiche che avevano avuto i risarcimenti dalla Germania. Quelle stesse organizzazioni che dopo la caduta del Muro avevano cercato di appropriarsi dei beni che erano appartenuti ad ebrei nella Ddr invece di lasciare che tornassero, come poi è successo, ai legittimi eredi.
Il nervosismo tedesco è comprensibile. I risarcimenti alle vittime della seconda guerra mondiale sono una questione delicata proprio nel momento in cui la Germania, dopo cinquant1anni, si prepara a pagare, a conclusione di lunghe e dure trattative, dieci miliardi di marchi ai sopravvissuti ai campi di lavoro forzato. Ovviamente le tesi di Finkelstein rischiano di essere sfruttate in chiave razzistica e antiebraica. Sempre più i tedeschi, soprattutto i giovani, sono stanchi di trovarsi sul banco degli imputati. Secondo lo Spiegel l'80 per cento dei trentenni, per i quali anche il Sessantotto è ormai un1epoca lontana, che non li riguarda, sono più o meno d'accordo con Finkelstein.
Sembra quasi un contrappasso al libro di Daniel Goldhagen sui «volenterosi esecutori» di Hitler. Goldhagen accusava i tedeschi di essere costituzionalmente nazisti. Criticato unanimemente dagli storici europei e israeliani, Goldhagen -- anche questo è un paradosso -- è diventato un bestseller in Germania e ha contribuito ad aumentare ll'insofferenza dei giovani.
13 febbraio 2001