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«IL MIO OLOCAUSTO» E LA MERCIFICAZIONE

DELLA SHOAH

di Tova Reich

Grottesca e avvelenata contro il gadget vittimale

di Carlo Mazza Galanti

Gli avvertimenti di Primo Levi ne I sommersi e i salvati sulla banalizzazione della memoria della shoah o i più vigorosi ammonimenti di Kertész sul conformismo, il sentimentalismo e il consumismo che connotano l'attuale divulgazione e produzione immaginaria dell'olocausto, appaiono come gesti di docile diplomazia davanti all'avvelenata insofferenza de Il mio olocausto (trad. di Costanza Prinetti, Einaudi pp, VlII-286, ¤ 16,5), il libro di Tova Reich che la scorsa primavera ha sollevato negli Stati Uniti contrastanti reazioni di giubilo (vedi Cynthia Ozich [Ozick], nella prefazione dell'edizione italiana) e di malcelata ripugnanza (David Margolick, sulle pagine della «New York Times Book Review»). La verità è che quasi nessuno sembra al riparo dalla violenta vis polemica di questo romanzo. Ne i discepoli di Lanzmann che denunciano Spielberg et la simulazione hollywoodiana della shoah innome della sua intoccabile irrapresentabilità, né ovviamente Spielberg stesso e la moltitudine di più o meno benintenzionati banditori di spettacolari ricostruzioni e identificazioni con il passato. L'ultima chiassosa manifestazione di questo genere di operazione della memoria, la proposta di Sarkozy di gemellare bambini francesi e bambini ebrei vittime dei nazisti, indica chiaramente quel confine tra ridicolo, assurdo e perverso su cui si muove la satira del romanzo della Reich,
I primi bersagli de Il mio olocausto sono dunque la banalizzazione della shoah, la proliferazione di memoriali e l'idolatria vittimale capace di trasformare documenti e testimonianze in gadgets e paccottiglia. Ma cadono a tena, una dopo l'altra, anche le più sofisticate e abusate costruzioni concettuali, come la nozione di «seconda generazione» o la «sindrome post-traumatica». Ancora oltre, è una compassionevole sfilata di diritti universali che subisce l'ultima irriverente strigliata della scrittrice americana. Come l'aggettivo possessivo del titolo lascia bene intendere, attraverso la celebrazione (mercificante e/o misticheggiante) della shoah, Tova Reich scorge, in una sorta di allucinata chiaroveggenza il diffondersi di una dolciastra e ombelicale concezione dell'individuo umano e sociale, imbozzolato nella sua corazza di affermati e pretesi e astratti diritti, riconoscimenti e autocelebrazioni.
Il mio olocausto è un libro di rara acrimonia, scorretto da ogni punto di vista, ossessivarnente alla ricerca della cattiva «buona fede». In questo senso cita bene la Ozich Swift e la sua «lama verbale», andrebbe forse aggiunto un po' di Gombrowicz per rendere l'idea di certe scene (probabilmente le migliori) dove l'orchestrazione dei personaggi e delle situazioni sfiora i domìni dell'assurdo e la satira si trasfonna in dura e pura negatività senza possibilità di riscatto. Il fatto che personaggi e situazioni del racconto siano grotteschi e caricaturali, nonostante i precauzionali avvenimenti, non pregiudica più di tanto la loro verosimiglianza. Non più di quanto lo United States Holocaust Museum
del libro («un fiero cazzo ebreo circonciso eretto nel corpo politico del paese» secondo la definizione del suo direttore fittizio) si discosti dall'omonimo museo di Washington, nel quale, tra parentesi, il marito dell'autrice ha effettivamente coperto un ruolo dirigenziale e sul cui sito web si può acquistare inquietante merchandise come «Refugee», la riproduzione di uno sparuto orsetto di peluche lasciato ad Auscbwitz da una bambina ebrea di nome Selma (Tommy Messiah, il losco personaggio della Reich che gira per Birkenau con la sua bancarella di oscene reliquie 'olocaustiche', è dietro l'an- golo).
Il sopravvissuto Maurice Messer, fondatore della Holocaust Connection inc. e presidente del suddetto museo, sembra una via di mezzo tra Krusty il clown e vari stereotipi americani di figure di bassissima lega morale e grande potere di pressione politica. Così i prati di Auschwitz, spettrali come siamo abituati a vederli, sono allo stesso tempo un fondale di cartone, l'indecente scenografia del «più grande spettacolo della terra» con cui Maurice Messer e il figlio Norman cercano di convincere un ricca e vacua ereditiera a staccare un assegno per «i sei milioni» e a incidere il suo nome sul «sacro muro dei donatori» del museo. La capacità della Reich di fondere una conoscenza dettagliata della shoah, della cultura ebraica e delle istituzioni come l'USHM, con dati completamente inventati e con la sua surreale parodia della memoria adulterata è forse il merito maggiore di questo romanzo. Messer e gli altri grotteschi personaggi che incontriamo ad Auschwitz e che si agitano in un crescendo di cinismo e di ridicolo, ritorneranno tutti al culmine della scena finale dell'occupazione del Museo di Washington. Iperbolica conseguenza della fede dichiarata di Norman Messer che «tutte le strade portano ad Auschwitz», l'invasione del museo è opera della Coalizione arcobaleno dell'Olocausto, gruppo interconfessionale new-age intenzionato a emancipare la shoah dall'esclusiva ebraica per dare la stura alle rivendicazioni universaliste di tutti i micro-olocausti del mondo. Nella mischia finale della presa di potere concorreranno, in un minestrone americano dai mille sapori, le rivendicazioni dei bambini, degli zingari, della Palestica, del Tibet, delle donne, degli omosessuali, dei feti, fino agli olocausti più specialistici «dei furetti, delle mucche pazze, l'olocausto delle cavie da laboratorio, l'olocausto del diritto-al-porto-d'armi, l'olocausto della bandiera della confederazione, l'olocausto del Falun Gong, l'olocausto delle streghe e dei Wiccans, l'olocausto degli alieni e degli extra terrestri, e via di questo passo attraverso una topografia popolata di gente bislacca».
Umor nero impenitente, riso spietato e liberatorio, irriverenza totale. Forse le qualità letterarie della Reich non sono sempre all'altezza della (difficile) impresa: il mio olocausto in alcuni punti si trascina, e si affida troppo a un'ironia affilata ma ripetitiva. Resta però l'impressione che un libro del genere andasse comunque rischiato. «Ogni atto creativo - ha detto Godard - contiene una minaccia reale per chi lo osa. Se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, si espone a subire senza profitto tutte le brutalità che la sua assenza ha reso possibili».

Alias n. 16 (con Il Manifesto), 19 aprile 2008.

 



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