Gli avvertimenti di Primo Levi ne I
sommersi e i salvati sulla banalizzazione della memoria della
shoah o i più vigorosi ammonimenti di Kertész sul
conformismo, il sentimentalismo e il consumismo che connotano
l'attuale divulgazione e produzione immaginaria dell'olocausto,
appaiono come gesti di docile diplomazia davanti all'avvelenata
insofferenza de Il mio olocausto (trad. di Costanza
Prinetti, Einaudi pp, VlII-286, ¤ 16,5), il libro di Tova
Reich che la scorsa primavera ha sollevato negli Stati Uniti contrastanti
reazioni di giubilo (vedi Cynthia Ozich [Ozick], nella prefazione
dell'edizione italiana) e di malcelata ripugnanza (David Margolick,
sulle pagine della «New York Times Book Review»).
La verità è che quasi nessuno sembra al riparo dalla
violenta vis polemica di questo romanzo. Ne i discepoli
di Lanzmann che denunciano Spielberg et la simulazione hollywoodiana
della shoah innome della sua intoccabile irrapresentabilità,
né ovviamente Spielberg stesso e la moltitudine di più
o meno benintenzionati banditori di spettacolari ricostruzioni
e identificazioni con il passato. L'ultima chiassosa manifestazione
di questo genere di operazione della memoria, la proposta di Sarkozy
di gemellare bambini francesi e bambini ebrei vittime dei nazisti,
indica chiaramente quel confine tra ridicolo, assurdo e perverso
su cui si muove la satira del romanzo della Reich,
I primi bersagli de Il mio olocausto sono dunque la banalizzazione
della shoah, la proliferazione di memoriali e l'idolatria vittimale
capace di trasformare documenti e testimonianze in gadgets e paccottiglia.
Ma cadono a tena, una dopo l'altra, anche le più sofisticate
e abusate costruzioni concettuali, come la nozione di «seconda
generazione» o la «sindrome post-traumatica».
Ancora oltre, è una compassionevole sfilata di diritti
universali che subisce l'ultima irriverente strigliata della scrittrice
americana. Come l'aggettivo possessivo del titolo lascia bene
intendere, attraverso la celebrazione (mercificante e/o misticheggiante)
della shoah, Tova Reich scorge, in una sorta di allucinata chiaroveggenza
il diffondersi di una dolciastra e ombelicale concezione dell'individuo
umano e sociale, imbozzolato nella sua corazza di affermati e
pretesi e astratti diritti, riconoscimenti e autocelebrazioni.
Il mio olocausto è un libro di rara acrimonia, scorretto
da ogni punto di vista, ossessivarnente alla ricerca della cattiva
«buona fede». In questo senso cita bene la Ozich Swift
e la sua «lama verbale», andrebbe forse aggiunto un
po' di Gombrowicz per rendere l'idea di certe scene (probabilmente
le migliori) dove l'orchestrazione dei personaggi e delle situazioni
sfiora i domìni dell'assurdo e la satira si trasfonna in
dura e pura negatività senza possibilità di riscatto.
Il fatto che personaggi e situazioni del racconto siano grotteschi
e caricaturali, nonostante i precauzionali avvenimenti, non pregiudica
più di tanto la loro verosimiglianza. Non più di
quanto lo United States Holocaust Museum
del libro («un fiero cazzo ebreo circonciso eretto nel corpo
politico del paese» secondo la definizione del suo direttore
fittizio) si discosti dall'omonimo museo di Washington, nel quale,
tra parentesi, il marito dell'autrice ha effettivamente coperto
un ruolo dirigenziale e sul cui sito web si può acquistare
inquietante merchandise come «Refugee», la riproduzione
di uno sparuto orsetto di peluche lasciato ad Auscbwitz da una
bambina ebrea di nome Selma (Tommy Messiah, il losco personaggio
della Reich che gira per Birkenau con la sua bancarella di oscene
reliquie 'olocaustiche', è dietro l'an- golo).
Il sopravvissuto Maurice Messer, fondatore della Holocaust Connection
inc. e presidente del suddetto museo, sembra una via di mezzo
tra Krusty il clown e vari stereotipi americani di figure di bassissima
lega morale e grande potere di pressione politica. Così
i prati di Auschwitz, spettrali come siamo abituati a vederli,
sono allo stesso tempo un fondale di cartone, l'indecente scenografia
del «più grande spettacolo della terra» con
cui Maurice Messer e il figlio Norman cercano di convincere un
ricca e vacua ereditiera a staccare un assegno per «i sei
milioni» e a incidere il suo nome sul «sacro muro
dei donatori» del museo. La capacità della Reich
di fondere una conoscenza dettagliata della shoah, della cultura
ebraica e delle istituzioni come l'USHM, con dati completamente
inventati e con la sua surreale parodia della memoria adulterata
è forse il merito maggiore di questo romanzo. Messer e
gli altri grotteschi personaggi che incontriamo ad Auschwitz e
che si agitano in un crescendo di cinismo e di ridicolo, ritorneranno
tutti al culmine della scena finale dell'occupazione del Museo
di Washington. Iperbolica conseguenza della fede dichiarata di
Norman Messer che «tutte le strade portano ad Auschwitz»,
l'invasione del museo è opera della Coalizione arcobaleno
dell'Olocausto, gruppo interconfessionale new-age intenzionato
a emancipare la shoah dall'esclusiva ebraica per dare la stura
alle rivendicazioni universaliste di tutti i micro-olocausti del
mondo. Nella mischia finale della presa di potere concorreranno,
in un minestrone americano dai mille sapori, le rivendicazioni
dei bambini, degli zingari, della Palestica, del Tibet, delle
donne, degli omosessuali, dei feti, fino agli olocausti più
specialistici «dei furetti, delle mucche pazze, l'olocausto
delle cavie da laboratorio, l'olocausto del diritto-al-porto-d'armi,
l'olocausto della bandiera della confederazione, l'olocausto del
Falun Gong, l'olocausto delle streghe e dei Wiccans, l'olocausto
degli alieni e degli extra terrestri, e via di questo passo attraverso
una topografia popolata di gente bislacca».
Umor nero impenitente, riso spietato e liberatorio, irriverenza
totale. Forse le qualità letterarie della Reich non sono
sempre all'altezza della (difficile) impresa: il mio olocausto
in alcuni punti si trascina, e si affida troppo a un'ironia affilata
ma ripetitiva. Resta però l'impressione che un libro del
genere andasse comunque rischiato. «Ogni atto creativo -
ha detto Godard - contiene una minaccia reale per chi lo osa.
Se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, si espone
a subire senza profitto tutte le brutalità che la sua assenza
ha reso possibili».
Alias n. 16 (con Il Manifesto), 19 aprile 2008.