Non è da un giorno, è da vent'anni che l'antirevisionismo professional-professorale cera di parlar d'altro. Lo si può capire: ogni volta che è stato tanto malaccorto da pretendere di entrare nel merito dei temi che i revisionisti hanno posto al centro della loro attenziore, le cose lo hanno smentito; e non di rado, e su aspetti di grande rilievo, la smentita è risultata così inoppugnabile -- si pensi, ad es., alla vicenda del numero dei morti di Auschwjtz -- da obbligare le vestali dell'olocausto a rimettere le mani nella pia leggenda potandola di ciò che più gravemente correva il rischio di apparire insostenibile ai destinatari della medesima una volta che il revisionismo fosse stato più largamente conosciuto. Questo rimettermano nella leggenda fa correre il pensiero a certi antecedenti. Qualcosa del genere, così ci viene detto, era in uso nell'antica Cina: quando un imperatore succedeva ad un altro, non solo si riscriveva la storia dei suoi predecessori, ma ci si preoccupava anche di andare negli archivi a modificare o a sopprimere i documenti che non quadravano con la nuova versione ufficiale.
Già, gli archivi: adesso li si rende inaccessibili (il che, poi, non esclude la possibilità di modifiche e soppressioni). Si veda il caso dell'archivio del Servizio internazionale di ricerche dipendente dalla Croce Rossa Internazionale, ad Arolsen (Germania). La Croce Rossa ha un grave torto: quello di aver visitato Auschwitz, di non avervi veduto certe cose e di averne veduto altre. E poi, quali nomi, e quanti, salterebbe-
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ro fuori dalle sue carte... Perché complicarsi la vita? Meglio, molto meglio, sbarrare a tutti le porte dell'archivio e affidare le chiavi ad un certo numero di Stati: nessuno si stupirà che tra questi ci sia "l'unica democrazia del Medio Oriente". E, dei resto, come fare altrimenti? Ad uno dei processi contro Emst Zündel c'era stato chi -- un teste a carico! -- aveva fatto precisa e circostanziata menzione di certi documenti colà conservati, e la cosa non era piaciuta alla pubblica accusa e alle parti lese, mentre era piaciuta ai revisionisti: "Io dico -- scrive Faurisson -- che è ad Arolsen che si potrebbe, volendo, stabilire il vero numero di ebrei durante la guerra" ("Ann. d'Hist. rév.", n. 5, est.-aut. 1988). Chiusura obbligata, e chiavi in mani sicure. -- Tutto questo è molto bello: specie, poi, quando, nello stesso tempo, i vari centri Wiesenthal e altre agenzie del genere ingiungono al Vaticane di aprire i suoi, di archivi, con l'arrière-pensée che, ron trovandovisi certi documenti -- quelli attestanti lo sterminio perpetrato secondo un piano, ecc. -- che non possono esserci -- e dalla cui assenza, prevista, si prenderebbe, in ipotesi, pretesto (così come lo si prenderebbe dalla loro presenza) per una rinnovata edizione del solito romanzo storiografico --, si potrebbe rilanciare il processo alle altissime gerarchie cattoliche di 50-60 anni or sono, processo che l'esserci Wojtyla sul trono papale renderebbe, almeno per certi aspetti, paradossale: processo extragiudiziale, s'intende, ma non perciò meno ternibile, considerati i personaggi che, una volta di più, sarebbero giudici e, insieme, parte in causa.
Quella di parlar d'altro non è semplicemente una tentazione, è una necessità. Ed ecco che al libro del Brayard tiene dietro quello di Nadine Fresco. Argomento di entrambi: la persona di Rassinier. Pur di demolirla, la Fresco -- come Brayard prima di lei, e lei con accanimento perfino maggiore -- non sembra essersi fatta prendere da troppi scrupoli: è quello che va emergendo da qualche primo esame delle sue quasi ottocento pagine (*). Ma facciamo conto per un momento che le quasi ottocento pagine squademino solo la
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verità, tutta la verità e nient'altro che la verità, facciamo conto che la persona di Rassinier fosse effettivamente tale da poter soltanto uscire malconcia da un esame rigoroso: che cosa mai, a fil di logica, ciò significherebbe in ordine alla fondatezza e attendibili tà scientifica del revisionismo olocaustico? Rassinier potrebbe pure essere stato quale lo dipinge la Fresco: vanitoso, ambizioso, bilioso, borioso, fanfarone, irresponsabile, egocentrico, megalomane; e cionondimeno l'indirizzo di ricerca che lo ha come capostipite (indirizzo il cui sviluppo si è orinai da un pezzo lasciato alle spalle quel pioniere che egli meritoriamente fu) potrebbe benissimo aver dato e continuare a dare la prova provata della propria validità.
Ed è precisamente ciò che è accaduto e accade. Sul valore delle loro sedicenti confutazioni sono gli antirevisionisti stessi a pronunciarsi nei tertnini più severi: è quello che fanno da quando hanno accettato (con plauso questo o quello della congrega, dissociandosi, ma solo per la forma e con molta ipocrisia, qualche altro) che l'Inquisizione e l'Index Librorum prohibitorum venissero ripristinati e che l'espressione pubblica dei risultati scaturienti dalle ricerche revisionistiche sull'olocausto venisse trasformata in reato penale in Francia, Germania, Austria, Belgio, Svizzera, Spagna. Ecco -- in regime di democrazia formale -- una violazione dei diritti umani della quale non si darà pensiero nessuna Amnesty Intemational!
Ma, se qualcuno è nella necessità di parlar d'altro, i revisionisti non hanno la più lontana intenzione di facilitargli il giochetto. Quella necessità non è la loro: non sono loro, infatti, ad avere un mito da tenere in piedi: non, in particolare, un mito di Rassinier. Hanno, invece, solide ragioni di pensare che sul piano della conoscenza storica la leggenda si manifesti ogni giorno che passa per quello che è. Questa conferenza di Arthur R. Butz (l'autore di The Hoax of the Twentieth Century) faceva benissimo il punto sulla questione già poco meno di vent'anni or sono. Quanto alla
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persistenza della leggenda sul piano che è proprio
della leggenda -- ossia presso milioni e milioni di uomini
ingannati da mezzo secolo e agli occhi dei quali una coglioneria
come La vita è bella ha buone probabilità
di passare non proprio come un documento storico, ma quasi --,
questo, evidentemente, è un altro discorso.
*) Si vedano nel sito Internet dell'AAARGH (acronimo dell'Association des Anciens Amateurs de Récits de Guerre et d'Holocauste) questi primi testi -- altri ne appariranno -- dedicati al libro della Fresco, Fabrication d'un antisémite (Ed. du Seuil, 1999), libro il cui contenuto corrisponde al titolo in una maniera molto speciale: l'antisemita, fin che le parole hanno un senso, non saltande fuori da nessuna parte, siamo, sì, in presenza di una fabbricazione, che però non è quella che l'autrice si dà l'aria di ricostruxe storicamente passo dopo passo. La fabbricazione c'è, ma è opera del l'autrice stessa. Diciamo "fin che le parole hanno un senso" perché è chiaro che, so ad una parola avente un senso riconosciuto se ne conferisce uno diverso, non c'è cosa a questo mondo che non possa venir "dimostrata". Ora, il senso diverso conferito alla parola antisemita è esplicitato dalla Fresco nell'affermazione, sfacciata quanto categorica, secondo cui un revisionista (un "negazionista", dice lei) sarebbe co i . pso un antiszmita (p. 69). Quanto alla forma più generale del criterio che presiede a questo mutamento- stravolgimento del senso di antisemita, essa non è per niente difficile da individuare anche solo procedendo a fil di logica; e, d'altronde, è l'autrice stessa a mettercene sotto gli occhi l'enunciato citando un passo di Rassinier, il quale quella forma più generale l'aveva a suo tempo individuata per conto propria. Si vedrà, infatti, che, in questo passo del '46, Rassinier delineava anticipatamente il metodo impiegato, mutatis mutandis, contro di lui dalla sua biografa: "Le citoyen Dreyfus[-Schmidt] est israélite, et il crie à l'antisémitisme, au racisme, à l'hitlérisme, etc. Comme s'il suffisait d'être israélite pour avoir le droit de faire une politique contre laquelle personne n'aurait le droit de protester" (p. 487; cfr. p. 476 s.). Antefatto di
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questa caratterizzazione: il candidato socialista Rassinier si contrapponeva, nella persona del candidato radicale, a colui che -- cosa che in questa contrapposizione non aveva parte alcuna, altrimenti la Fresco non domanderebbe di meglio che di dircelo -- era il terzo israelita tra i sindaci che si erano succeduti a Belfort nel ventennio 1919-1939, e che sindaco sarebbe stato di nuovo, nel dopoguerra, a tre riprese, per sedici anni (p. 730, nota 18), oltre che, sempre nel dopoguerra, deputato della città: carriera politica dietro la quale non sembra arbitrario intravedere un'influenza locale particolarmente forte (cfr. p. 359), la quale, per es sere stato, come si è detto, il Dreyfus-Schmidt preceduto nella carica da due correligionari in breve giro di anni, non poteva essere solo sua personale. Appare poco probabile, infatti, che un piccolo gruppo sociale esprima in pochi anni tre sindaci senza avere un ruolo cospicuo nella vita cittadina.
Ora, nel 1940 Belfort contava 30.000 cattolici, 7.900 protestanti e 1.200 ebrei (p. 361), e quest'ultima cifra è, nella sua relativa esiguità, tanto più significativa in quanto pare includere anche un numero imprecisate di poveri diavoli non naturalizzati, ebrei provenienti dall'Europa orientale, soprattutto dalla Polonia (p. 360 s.), gente che di influenza non ne aveva di certo e che nell'anteguerra, se avesse goduto del diritto di voto, verosimilmente si sarebbe ben guardata dall'esercitarlo a vantaggio del borghesissimo avvocato radicale. C'è da augurarsi di poter ricordare questo non inedito abbinamento di esiguità e influenza senza che nel richiamo ai numeri che lo attestano si pretenda di leggere a nostro carico una qualunque propensione verso l'idea che ad essere infranta a Belfort fosse un'intuitiva e sottintesa norma di proporzionalità (a essere infranta era, semmai, una norma di discrezione; ma forse è arbitrario parlare, in questo caso, di norma, giacché può mai darsi una norma senza che sia accettabilmente individuabile il soggetto per il quale essa dovrebbe essere tale?). Vi si legga, invece, il motivo per il quale -- in ciò convergendo noi in una certa misura con la Fresco riguardo ad una sorta di territorialità (che peraltro non va enfatizzata, come invece fa costei) nella formazione di Rassinier -- ci pare tutt'altro che da escludere l'ipotesi che la constatazione di una così evidente influenza la sua parte l'abbia avuta nel sensibilizzare colui che scriverà Le Drame des juifs européens e Les Responsables de la Seconde Guerre mondiale ad un problema che travalicava e travalica ogni particolare territorialità, ogni localismo. Ma le conclusioni cui egli giunse in ordine a questo problema, ivi comprese quelle revisionistiche, possono essere tacciate di antisemite solo attenendosi, come fa, appunto, la Fresco e come fanno tanti altri, al criterio che Rassinier aveva messo a
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fuoco cos incisivamente quando ad attenervisi era il suo antagonista locale.
Nell'affermazione che l'antirassinierismo della Fresco sia anche più sistematico di quello di Florent Brayard, non v'è nulla che sia meno che esatto. Costei si industria di gettare la luce più sfavorevole perfino là dove Brayard (che, pure, non scherzava) ha ritenuto di non poterlo fare, per d-r così, giustificabilmente. Si veda a proposito di Jircszah, figura che ogni lettore della Menzogna di Ulisse ricorderà. Nelle ventitrè righe che gli riserva, la Fresco, senza mai dire che si tratta di un prodotto della fantasia di Rassinier, di una sua creazione, conduce per mano il lettore a concludere in tal senso. In quelle ventitrè righe il nome del personaggio ricorre tre volte; la terza volta, quando ormai la conclusione è maturata "autonomamente" nella testa del lettore, eccolo arricchirsi delle virgolette (p. 515), strizzatina d'occhio il cui significato è del tutto trasparente: "Macché Jircszah e Jircszah, qui è Rassinier che parla per bocca di una figura di comodo inventata di sana pianta per l'occorrenza". A tutto questo esercizio di ciò che si sarebbe inclini a definire adescamento la Fresco è costretta dal fatto che, se anche lace circa una molesta testimonianza raccolta da Brayard, non può nemmeno fare, però, come se quella testimonianza non esistesse. Qualcuno, purtroppo, tra i compagni di deportazione di Rassinier ha conservalo il ricordo del singolare personaggio rispondente a quel nome, e di ciò disgraziatamente Brayard ha fatto parola nel suo libro (cfr., di lui, Comment l'idée vint à M. Rassinier. Naissance du révisionnisme, Fayard, 1996, p. 34 e nota 6: l'autore tenta pure lui di presentare Jircszah come "un double à moitié fictif -- solo "à moitié" -- di Rassinier, ma il tentativo è vanificato dal fatto che i tratti culturali e umani del personaggio quali li si desume dalla testimonianza danno la consistenza del leale all'immagine fornitaci dalla Menzogna di Ulisse).
E' stata, à n'en pas douter, questa circostanza del ricordo rimasto vivo nel vecchio deportato e reso noto da Brayard ad impedire alla Fresco di proclamare apertamente che sulla realtà di Jircszah Rassinier mentiva. Ma la buona donna, cui non fanno difetto le risorse del mestiere, le ha messe a frutto perché il lettore non illuminato arrivasse "per conto proprio" a esserne convinto.
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Estratto da Contesto storico e prospettiva d'insieme nella
controversia dell'<olocausto> di Arthur R. Butz, Graphos,
1999.pp. 7-12.
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