Il tenore dell'articolo che segue è tale da non lasciare il minimo dubbio sul fatto che, sotto qualsiasi forma, l'antisemitismo ci suscita una repulsione se non provassimo la quale ci mancherebbe la possibilità stessa di essere dei comunisti. Lo sottolineiamo soltanto perché, come si rileva nel testo, è norma che venga infamata come "antisemita" ogni posizione che non sia di supina adesione al sionismo e alle "verità" che, sul piano storico, dovrebbero legittimare la realizzazione statale da esso prodotta.
Il comitato di redazione
Una delle certezze di cui tutti quanti siamo stati nutriti dal 1945 in poi - ossia, per una buona parte dell'umanità vivente, da sempre - è che il regime nazista avrebbe soppresso 6 milioni di ebrei; che questo sterminio sarebbe stato attuato in conformità ad un progetto generale, ad un piano accuratamente studiato in tutti i suoi dettagli; che l'esecuzione di questo piano avrebbe, di norma, comportato l'impiego di una specifica tecnica, la quale avrebbe sinistramente ricalcato, applicandoli alla distruzione sistematica dell'ebraismo europeo, i criteri e mezzi che il capitalismo applica alla produzione di massa. La tesi di Paul Rassinier (1906 - 1967), - della quale Robert Faurisson, a partire, crediamo, dal '78, ha ripreso taluni elementi cui ha conferito ampio sviluppo - è che gli ebrei da considerare morti a seguito della persecuzione nazista sarebbero ammontati, alla fine della guerra, ad un massimo, in cifra tonda, di un milione e seicentomila unità; che, allo stato dei documenti conosciuti, nulla permetterebbe di affermare che da parte nazista sia stato elaborato un piano di liquidazione fisica degli stessi; che la costruzione e l'impiego di camere a gas, lungi dal corrispondere alla regola, avrebbero corrisposto (se e quando abbiano avuto luogo) all'eccezione; che, in ogni caso, l'eccezione sarebbe dipesa da iniziative di autorità periferiche, avrebbe inciso in misura assai limitata sulla mortalità ebraica complessiva e sarebbe stata stroncata dall'intervento delle autorità centrali del III Reich; che il pur sempre enorme cumulo di cadaveri - di ebrei e non - originato dal sistema concentrazionario nazista sarebbe stato sostanzialmente il risultato non di sterminî (che Rassinier, è opportuno sottolinearlo, non escludeva in via assoluta), ma soprattutto dei procedimenti posti in essere dagli organi dell'autoamministrazione dei campi (la selfbureaucratie, come egli rende l'espressione tedesca Haftlingsführung), demandata agli stessi detenuti dalle autorità naziste, e, insieme, il risultato di una spietata concorrenza, in atto sia tra categoria e categoria di detenuti (soprattutto tra politici e comuni) sia all'interno di ciascuna categoria (in quella dei politici, soprattutto tra militanti staliniani e non), per il controllo dell'autoamministrazione stessa, controllo che di per sé assicurava una posizione di netto vantaggio nel quadro di condizioni determinanti una dura lotta per la sopravvivenza.
Una tesi, dunque, sconcertante finché si voglia, ma in fin dei conti una tesi che (anche a non voler considerare la personalità del suo primo enunciatore, militante comunista dal '22, espulso dal partito come oppositore di sinistra nel '32, passato in seguito alla SFIO, pacifista, resistente della prima ora, arrestato e torturato dalla Gestapo, detenuto per 19 mesi, dall'autunno del '43 alla fine del conflitto, a Buchenwald e a Dora e ritornatone grande invalido: non facilmente sospettabile quindi di atteggiamenti pronazisti) per il fatto di presentarsi come poggiante su di un largo materiale probatorio e sull'applicazione ad una considerevole quantità di dati processuali, pubblicistici, statistici e tecnici di quegli stessi avvenimenti critici che sono universalmente ritenuti obbligatori quando si affronti l'esame di una qualunque questione storica - sia essa il dominio degli Hyksos in Egitto o il corso degli assegnati nella Francia rivoluzionaria, la fucilazione del duca d'Enghien o la politica agraria di Alessandro II - esigerà di venir giudicata anche (non sarà pretendere troppo) alla stregua della sua maggiore o minore aderenza ai fatti e della sua maggiore o minore capacità di spiegarli.
Naturalmente noi - che non crediamo che dire la verità sia sempre e comunque rivoluzionaria - non siamo tanto sprovveduti da pensare che quello del quantum di verità che una tesi è eventualmente atta a cogliere e ad illuminare, sia l'unico criterio in base si possa e si debba prendere posizione nei confronti di essa. L'emergere di una tesi o di una concezione è un evento su cui il giudizio - comportando a sua volta un giudizio sulle tendenze di fondo che informano la tesi o la concezione, sugli interessi che ne sollecitano l'enunciazione o nel senso dei quali va obiettivamente l'enunciazione, sulle conseguenze pratiche che ne discendono e così via - non combacia necessariamente con quello relativo alla veridicità e correttezza del loro contenuto. La tragedia dell'ebraismo europeo (perché come è evidente di tragedia si dovrà comunque parlare anche quando si riduca di molto l'ammontare del suo costo in vite umane e si contesti la sua rispondenza ad un progetto articolatosi in una specifica tecnica eliminatoria) e la più generale tragedia dei Lager non possono venir considerate nell'ottica in cui è possibile, normale e necessario considerare l'antico Egitto, la Francia rivoluzionaria o napoleonica o la Russia di più di un secolo fa. Da un lato abbiamo vicende che hanno cessato di avere una qualsiasi ripercussione diretta sulla realtà di oggi e, quanto a ripercussioni, un caso equivalente è rappresentato da quei fatti del passato - compresi imponenti sterminî: quello, ad esempio, che ha sostituito i giapponesi attuali alla originaria popolazione ainu - le cui conseguenze pur sempre dirette sono sì cosa di oggi e di domani, ma ai quali, soprattutto per ragioni di lontananza nel tempo, non si accompagna più reazione emotiva alcuna. Dall'altro lato abbiamo un fatto, la persecuzione hitleriana, che si collega a non meno di due ordini di questioni di cui sarebbe da ciechi negare la rilevanza nel presente e nel futuro e che è indispensabile avere presenti se ci si vuole mettere in grado di comprendere l'esatta natura degli interessi contro cui la tesi di Rassinier viene a cozzare e, insieme, l'obiettiva valenza politica (in senso lato) della tesi stessa. In primo luogo, la seconda guerra imperialistica è stata presentata da entrambe le parti contendenti come uno scontro tra la civiltà e la barbarie. Che la parte uscente vittoriosa accreditasse, e accrediti, la propria vittoria come vittoria della civiltà e la sconfitta della parte avversa come sconfitta della barbarie, è il meno che potesse accadere, tanto più quando si trattava di giustificare, nell'assetto degli equilibri imperialistici, la divisione dela Germania in due stati. Ora, noi non siamo assolutamente alieni dal riconoscere l'indole spiccatamente delinquenziale del nazismo, a patto che non si dimentichi non solo che esso, nella sua indubbia complessità sovrastrutturale, non può venire adeguatamente spiegato in termini di psicopatologia, ma anche che la "civiltà" dei vincitori grondava sangue allora e ha continuato a grondarne poi; ma è indubbio che la tesi di Rassinier, ridimensionando quantitativamente e anche qualitativamente l'entità degli effetti criminosi risalenti al nazismo, si risolve in una smentita opposta agli orpelli ideologici di cui i vincitori del '45 hanno ammantato la loro guerra.
Inoltre, sempre rimanendo nel medesimo ordine di questioni, occorre non perdere di vista lo stretto rapporto che unisce quella realtà statuale che è Israele al precedente della persecuzione antiebraica scatenata dal III Reich. Nelle asserite modalità programmatiche e operative e negli asseriti esiti di questa, quella realtà statuale ha trovato non solo buona parte dei suoi titoli di legittimità storica e morale (e senza alcun dubbio la parte più carica di suggestione per l'opinione pubblica del mondo gentile, oltreché per quegli stessi ambienti ebraici che in precedenza erano risultati meno permeabili dal sionismo), ma altresì il fondamento "di fatto" per esigere dalla germania federale un risarcimento pecuniario (1) che - commisurato al numero degli ebrei assunti vittime della persecuzione - ha giocato un ruolo di prim'ordine nel decollo economico del giovane stato mediorientale. A questo elemento, rappresetnato dalla portata morale, storica ed economica della gestione della tragedia ebraica da parte di Israele, si aggiunga l'altro elemento, quello consistente nella tendenza del sionismo a valersi in funzione filoisraeliana dell'impatto emotivo che quella tragedia, ciclicamente rievocata in forme diverse, continua ad avere su di una opinione pubblica internazionale la quale, dal tempo della guerra dei 6 giorni, dà segno di inclinare preocccupantemente verso il coinvincimento che la violenza subita ieri dagli ebrei di Europa non giustifichi la sopraffazione operata oggi da Israele ai danni del popolo palestinese, nel quadro della conquista e della conservazione di un preteso Lebensraum che da molti anni vengono perseguite - fossero e siano al potere laburisti o conservatori - con l'arroganza e con metodi consueti ad ogni sciovinismo espansionistico.
In secondo luogo, è un fatto che quella repellente aberrazione che è l'antisemitismo - pur non avendo raggiunto la diffusione attribuitagli dalla propaganda sionista col suo calunniare come antisemita ogni posizione avversa ad Israele e alla "soluzione" del problema ebraico sedicentemente realizzata con la fondazione di quello stato - non solo serpeggia sporadicamente ma abbastanza visibilmente (e con la bestialità che gli è propria: si pensi all'attentato di Rue Copernic), in Europa e nelle due Americhe, ma, come è naturale, trova il suo inserimento in un più largo - quantunque oggi assai marginale - fenomeno di reviviscenza del nazismo, dal quale poi ricava decuplicata virulenza. Non possiamo soffermarci ad illustrare il legame che intercorre proprio tra l'esistenza delo Stato israeliano (tra la politica da esso perseguita nella logica della "soluzione" sionistica, tra l'ambiguità che l'esistenza stessa di Israele introduce, fuori di Israele, nella posizione degli ambienti ebraici desiderosi di mantenersi fedeli, come loro diritto, alla loro identità culturale e religiosa) e il polarizzarsi di una parte, perore ristretta, delle immense risorse di nevrosi e di bestialità che la società del capitalismo supermaturo ingenera nel proprio seno, intorno all'ubi consistam offerto loro dalle assurdità e dalle turpitudini antisemitiche proprie all'armamentario ideologico del nazismo. Ciò che ora ci interessa è che la ricerca delle effettive proporzioni dei crimini di cui quest'ultimo è responsabile, se avrà un effetto, avrà non già quello di renderlo più accettabile, di rivalutarlo, bensì casomai quello - inverso! - di intaccare e diminuire la malsana attrazione che l'immagine del potere nazista quale è uscita dalla disfatta militare esercita, come modello su quelle riserve di nevrosi e di bestialità.
Questa considerazione può sembrare, di primo acchito, in contrasto con una circostanza precisa, vale a dire col fatto che, vivente l'autore, gli scritti di Rassinier sono stati pubblicati da case editrici di estrema destra (2). Non è arduo però afferrare la logica di questo paradosso, i libri di un vecchio militante di sinistra che vengono editi dall'estremo opposto dell'arco delle posizioni politiche e che ivi trovano, per anni, i loro lettori: per gli editori di destra si trattava e si tratta non tanto di discolpare il nazismo, quanto piuttosto di rinverdire, attualizzandola, la favola di un mondo intero di goim fatto zimbello, con una storia inventata di sana pianta, dei savi anziani di Sion: la paccottiglia della "guerra occulta" e della sovversione universale fomentata dall'ebraismo o da forze infraumane che si servirebbero dell'ebraismo come di uno strumento. Lo dicevamo poco fa, noi non crediamo che <I>dire la verità</I> sia sempre e comunque rivoluzionario; ma anche dalla vicenda di Rassinier troviamo confermato che, quando a sinistra ci si fa complici di un gioco condotto, in ultima analisi, dall'avversario di classe (e in questo caso il farsi complici è consistito anche nel rifiutarsi di guardare, per tutto un insieme di motivi generali, al di là di una "verità" ufficiale), si corre poi il pericolo di vedere la verità, o la ricerca di essa, messa a frutto per gli scopi obliqui di quei settori delle forze nemiche i quali siano emarginati come (momentaneamente) inutili dai settori prevalenti delle stesse forze.
Ma se, per il suo contenuto demistificatorio della "verità" fatta valere dalla vittoria delle potenze "democratiche", la tesi di Rassinier presenta un indiscutibile interesse per la critica della visione della storia europea imposta dall'egemonia prevalsa nello scontro tra imperialismi, pari interesse le va riconosciuto anche sotto un differente profilo. Il caso di Rassinier è veramente singolare. Uomo di sinistra pubblicato e letto dalla destra estrema - operazione cui egli ha certamente avuto torto a prestarsi, ma spintovi, non lo si deve dimenticare, dal terribile isolamento che il suo coraggio intellettuale gli guadagnò da parte della sinistra e, d'altro canto, senza cessare di collaborare ai giornali pacifisti e libertari -, il "marxismo" al quale il suo curriculum politico lascia supporre avesse un tempo aderito non doveva andare esente da forzature e fraintendimenti, come si desume dalla confutazione che egli ha preteso di farne in riferimento alla concezione generale dello sviluppo storico (3). Eppure, non solo egli, "scrivendo Le Mensonge d'Ulysse aveva l'impressione di fare eco a Blanqui, Proudhon, Louise Michel, Guesde, Vaillant, Jaurès e di incontrarsi con altri... i quali tutti hanno posto il problema della repressione e del regime penitenziario partendo dalle stesse constatazioni e negli stessi termini posti da lui, e per questo avevano ricevuto tutti un'accoglienza piena di simpatia dal movimento socialista della loro epoca" (4); non solo egli, rifiutandosi di contribuire ad "una cultura dell'orrore basata sul falso storico" e, per tale via, all'apertura di "un abisso invalicabile tra la Francia e la Germania" (5), si sentiva fedele "ai principi della sinistra del 1919" - in definitiva, qui siamo ancora sul terreno del soggettivo, e di buone intenzioni è lastricata anche la via per l'inferno! -; ma soprattutto, come giustamente rileva La Guerre sociale, che all'esposizione e all'inquadramento teorico della tesi rassinieriana ha dedicato un lungo articolo al quale rinviamo il lettore, "l'interesse delle opere di Paul Rassinier e particolarmente di La Menzogna di Ulisse sta nel fatto che permettono una concezione materialistica della vita, e quindi della morte, all'interno dei campi" (6).
Il materialismo marxista non esclude per nulla, come invece immaginano i suoi critici e certi suoi volenterosi ma superficiali seguaci, che coefficienti il cui gioco non sia immediatamente riconducibile all'economia, cioè il cui gioco sia riconducibile ad essa attraverso una così ampia rete di mediazioni da conferire a quei coefficienti un non trascurabile margine di autonomia, abbiano un'incidenza reale e profonda sul decorso degli eventi storici. Esso bensì stabilisce che le situazioni obiettive che consentono l'entrata in azione di quei coefficienti e che, insieme, prescrivono loro i limiti massimi entro cui possono agire, sono determinate, in ultima istanza, dal grado di sviluppo delle forze produttive e dal correlativo contrasto tra queste e i rapporti di produzione. Esso, perciò, non apporta a se stesso nessuna limitazione, nessuna correzione, allorché prende atto dell'intervento di coefficienti extraeconomici (in particolare, di coefficienti psicologici) nel concreto snodarsi dei processi sociali e degli accadimenti in genere, ferma restando la tendenza obiettiva - realizzantesi volta a volta in differente misura - ad una restrizione del raggio di influenza di tali coefficienti quando si passa dalla sfera di quelli tra i rapporti interindividuali che non siano per definizione caratterizzati in diretta conseguenza della divisione sociale del lavoro, ai processi aventi carattere collettivo.
Il materialismo marxista, quindi, è aperto all'ipotesi dell'irruzione sulla scena storica e perfino dell'assunzione di ruoli in via di fatto protagonistici - ma sulla base di premesse generali economicamente determinate - da parte di coefficienti definibili come perversione, malvagità, crudeltà, manifestazioni di pulsioni antisociali e distruttive nelle quali (nella misura in cui tali pulsioni non siano fenomeni scaturenti da mero determinismo somatico) si concentrano e rispecchiano le stigmate di inumanità che ineriscono al mondo del capitalismo. Solo che, per il marxismo, l'essere aperto a siffatta ipotesi non significa che ai coefficienti da essa evocati si possa ricorrere in via esplicativa senza aver prima considerato a fondo se coefficienti di più normale, scontato e perfino accettato intervento nella qualificazione dei comportamenti individuali e collettivi non siano in grado di dare ragione, con il loro pressoché automatico estrinsecarsi nell'ambito di situazioni in sé eccezionali, di esiti la cui tragicità sembrerebbe derivare da uno specifico intento ispirato dalle più sadiche tendenze.
La fame di lavoro della Germania durante la guerra è nota. Era alla base della politica intesa a promuovere il rientro nel Reich delle minoranze etniche tedesche. "I propagandisti raccontavano loro che erano state chiamate dalla voce del sangue; in realtà i capi del regime avevano causato il ritorno per un motivo molto prosaico: alla grande Germania mancava mano d'opera, il paese con il presunto popolo senza spazio non aveva neppure uomini a sufficienza per far funzionare a pieno ritmo l'industria e l'agricoltura" (7). I campi erano stati concepiti non solo con un fine di neutralizzazione di forze giudicate pericolose politicamente o socialmente, ma altresì come mezzo di concentrazione e sede di erogazione di lavoro schiavo, aggiuntivo e, in parte, sostitutivo a quello fornito all'industria bellica dalla mano d'opera "libera" del Reich; vantaggioso, dunque, nonostante la sua decisamente scarsa produttività, perché il suo costo poteva scendere, se proprio inevitabile, al di sotto di quello di sussistenza. Se proprio inevitabile : in quanto nuovi contingenti di schiavi avrebbero sì potuto essere reclutati coattivamente, ma - per ovvie ragioni politiche, militari e tecniche - non certo a ciclo continuo. Che il valore della vita umana si aggirasse intorno a livelli estremamente bassi era dunque conforme all'istituzione in sé; che di fatto le cose procedessero come se il livello di valore della vita umana scendesse ulteriormente passando, mettiamo, da Berlino a Buchenwald, dall'ottica delle autorità centrali a quella della autorità periferiche, anche questo era nella logica della situazione. Se le autorità centrali avevano prefissato un dato rendimento in via teorica, ossia sul presupposto che tutta la macchina concentrazionaria avrebbe funzionato al meglio (dando quindi per scontati certi minimi di trattamento alimentare e sanitario), per le autorità periferiche il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, o di obiettivi non troppo distanti da quelli, era da garantire ad onta degli ostacoli opposti da tutti quei fattori di varia indole che inibivano la collimanza tra funzionamento ottimale e funzionamento effettivo dell'apparato. Non è forse sempre meglio evitare le grane? Tanto più quando il loro scoppio avrebbe potuto comportare la perdita della vantaggiosa qualità di imboscati e l'invio al fronte - magari, al temutissimo fronte orientale. D'altro canto, non c'è bisogno di sottolineare come l'indottrinamento ideologico cui veniva sottoposta la minutaglia piccoloborghese selezionata per formare i quadri SS non fosse proprio fatto per predisporre costoro ad un atteggiamento benevolo nei riguardi degli sventurati affidati alla loro sorveglianza.
Ciò posto, ci si guardi intorno e ci si domandi: quanti sono, nei cronicarî, negli orfanotrofi, nelle carceri, gli internati il cui stato fisico è lentamente minato da una denutrizione che non li colpirebbe se il cibo loro somministrato fosse nella quantità e della qualità stabilite da convenzioni, contratti di appalto ecc. che spesso è tanto facile disattendere impunemente? E in quale misura ciò si ripercuote sulla mortalità di queste ed altre consimili istituzioni? Ed ecco che ci si rende conto di quali effetti devastanti debba avere prodotto il riflesso condizionato espresso nella massima secondo cui "la carità comincia da se stessi" quando, nelle condizioni dei campi (all'interno dei quali e in margine ai quali, per di più, fioriva un mercato nero alimentato dai beni sottratti al consumo dei semplici detenuti e i cui proventi andavano spesso spartiti tra la burocrazia concentrazionaria - capò e loro galoppini - e le guardie, cioè tra i gruppi dal concorso di ciascuno dei quali dipendeva la possibilità di effettuare le transazioni) quel riflesso affiorava in chi, in qualche modo, aveva il coltello dalla parte del manico. Ancora: quanto spesso, nel mondo "normale", l'incompetenza è all'origine di disfunzioni? Ed ecco che ci si rende conto che quelle che nel mondo "normale" restano nei limiti di "disfunzioni", nelle condizioni dei campi potevano diventare disastri; che, per fare un esempio, nella mortalità dei Lager una parte deve pure averla avuta il fatto che ben spesso nelle infermerie dipendenti dall'autoamministrazione lavorassero, su un materiale umano debilitato oltre ogni dire, addetti prescelti dall'autoamministrazione stessa non in base alle mansioni svolte nella vita civile, come pure sarebe stato facile fare, ma in base a tutt'altro genere di criteri.
E ancora: è forse così raro imbattersi nello zelo e nel fiscalismo dei subordinati, nella loro inclinazione ad essere più realisti del re, nell'autoidentificazione con i padroni? Ma a quali estremi poteva giungere lo zelo di chi, se giudicato impari al compito affidatogli, avrebbe visto abbassarsi le sue probabilità di sopravvivenza? Ed ecco non solo le misure vessatorie escogitate, spesso senza alcuna effettiva necessità, dalla burocrazia dei detenuti ai danni dei più indifesi, ma perfino casi apparentemente paradossali in cui lo stesso intervento delle SS a modifica di disposizioni prese dall'autoamministrazione si sarebbe risolto in un vantaggio per i detenuti dello strato inferiore (7bis).
Se, dunque, Rassinier considerava a priori sospetta l'abbondante memorialistica sui campi fiorita nel dopoguerra, ciò era sia per l'indulgere di questa all'amplificazione degli elementi di orrore di cui già di per sé era stata ricca la realtà dei lager (da cui il titolo del libro, dedicato in buona misura all'analisi critica di un saggio di questa memorialistica, quella riferentesi ai campi di cui, per esservi stato rinchiuso, Rassinier conosceva la situazione in maniera diretta: tornato alla "sua petrosa Itaca", dopo un viaggio prolungatosi per dieci anni, Ulisse non si accontenterà di narrare le peripezie effettivamente accadutegli, ne inventerà), sia, e ancora più, per il fatto che in una parte preponderante di questa letteratura - la parte prodotta da chi aveva appartenuto a quel 10% di burocrazia espressa dall'autoamministrazione, allo strato, quindi, di prigionieri, per lo più politici, definito dall'espletamento di compiti che, ambiti per il più umano dei motivi (una relativa garanzia di sopravvivenza personale), sarebbero stati accompagnati da prerogative di fatto il cui esercizio si sarebbe risolto in un netto aggravamento delle condizioni degli altri detenuti -, la generale mancanza di obiettività sarebbe stata, più che accentuata, ingigantita dalla presenza di un intento autoapologetico. Questo intento avrebbe dato luogo all'accreditamento di un'immagine dei campi (del loro funzionamento, delle loro funzioni istitutive, del ruolo svoltovi dalle autorità naziste) tale da esentare la suddetta burocrazia dalla sua porzione di responsabilità - che Rassinier non si stancava di dipingere come pesantissima - di responsabilità per le sofferenze sopportate dai semplici prigionieri e tale, insieme, da consentire un'alibistica presentazione della sua attività in chiave di resistenza al nazismo, laddove quell'attività sarebbe stata caratterizzata, oltre che da uno zelo superiore a quello richiesto dai padroni nazisti, dalla perpetrazione di continui e gravissimi abusi ai danni del restante 90% dei prigionieri.
Quando, sulla zattera della Medusa, i superstiti cominciarono a mangiarsi tra loro, è da presumere che per i più robusti la sopravvivenza personale valesse come fine a sé, non come mezzo per salvaguardare la possibilità di far conoscere al mondo, un giorno, la tragedia seguita al naufragio. E questo, se si vuole, è molto umano! Chi si sentirà di dare la croce addosso a Rassinier quando manifesta il suo scetticismo circa l'attendibilità dell'argomento spesso invocato dalla burocrazia concentrazionaria per spiegare questa o quella scelta risoltasi a detrimento di semplici detenuti - che qualcuno doveva pur sopravvivere per testimoniare, un giorno, sugli orrori del nazismo? E' ammissibile un argomento del genere per giustificare una autodesignazione a futuri testimoni? Cosa dà il diritto di asserire che gli altri, quelli finiti in cenere o quelli che, comunque, hanno fatto le spese di quelle scelte, sarebbero stati meno idonei a testimoniare?
Nell'aprile 1951 sulla rivista di Sartre, Les Temps modernes, apparivano estratti di un libro di memorie di un medico ungherese, Miklos Nyiszli, che in qualità di ebreo era stato deportato ad Auschwitz. Prendendo per buoni i ritmi con cui, secondo Nyiszli, sarebbero proceduti lo sterminio e la cremazione dei cadaveri in quel celebre campo, si poteva calcolare che nei 5 anni in cui esso rimase aperto, le persone soppresse avrebbero dovuto ammontare a 45 milioni, di cui 36 milioni sarebbero state successivamente cremate in quattro formi e 9 milioni in due focolari all'aperto. Considerando, invece, che "tutti coloro che hanno studiato [il problema dello sterminio per mezzo del gas] sono d'accordo nel dichiarare che "nei rari campi dove ve ne furono" (E. Kogon dixit) le camere a gas furono effettivamente in stato di funzionamento soltanto nel marzo 1942 e che fin dal settembre 1944 delle ordinanze che non si sono ritrovate, come non sono state ritrovate nemmeno quelle che ordinavano la soppressione, proibirono di utilizzare le camere a gas per "asfissia"; considerando dunque questo, al ritmo sostenuto dal dott. Nyiszli Miklos, si arriva ancora a 18 milioni di cadaveri per questi due anni e mezzo, cifra che, non si sa bene per quale virtù matematica, il suo traduttore Tibor Kremer riporta autorevolmente a 6 milioni" (8). Interpellato per lettera da Rassinier, che gli segnalava "tutte queste cose impossibili", il Nyiszli parlava di due milioni e mezzo di sterminati; ma ciò ora importa relativamente, così come ora poco ci importa che - cosa singolare per un documento storico! - in questa testimonianza risultassero introdotte delle modifiche di rilievo passando dalla versione pubblicata nel '51 a quelle - in tedesco e, di nuovo, in francese - del 1961 oltre che tra queste due ultime (9). Riferendosi alla versione del '51, Rassinier poteva concludere: "sostengo che tutto ciò é ovviamente inesatto e che anche senza essere stati deportati, basta un po' di buon senso per stabilirlo"; e segnalava a Les Temps modernes : le riflessioni suggeritegli dalla pubblicità che la rivista faceva al dottor Nyislzi Mikos". Risposta di Les Temps modernes per la rivista di Merleau-Ponty: "Saranno gli storici che dovranno porsi questi interrogativi. Ma nel momento attuale, questo modo di esaminare le testimonianze ha per risultato di gettare il sospetto su di esse come se mancassero di una precisione che saremmo in diritto di attenderci. E, dato che adesso si tende piuttosto a dimenticare i campi tedeschi, questa esigenza di verità storica rigorosa incoraggia una falsificazione massiccia, che consiste nell'ammettere in blocco che il nazismo é una favola" (10).
Il maître-à-penser non veniva, evidentemente, sfiorato dal sospetto che, col suo smarrire ogni senso della misura, poteva essere proprio la "cultura dell'orrore" a porre le premesse per una revisione la quale, partendo dalla questione concentrazionaria, debordasse fino a conferire al nazismo qualcosa di somigliante ad un'apparenza di rispettabilità. Abbastanza miope, non c'è che dire: la stessa miopia che oggi pare impedire ai più di comprendere che, se da una revisione è da operare sul problema dei lager (e che vi sia da operare una revisione lo dimostrerebbe, così sembra, il fatto che sarebbero troppe in argomento, le cose incapaci di resistere ad un esame approfondito), mai e poi mai la si dovrebbe lasciare monopolio a forze di estrema destra.
Del resto, chiunque é in grado di capire che la responsabilità prima e globale di ciò che é avvenuto nei lager spetta a chi, avendoli impiantati - impiantati, non inventati -, innescò il crudele processo selettivo che vi si svolse. Per questo riguardo, la tesi di Rassinier, qualunque cosa egli abbia eventualmente potuto pensare, non mette minimamente capo all'assoluzione dei nazisti, proprio come l'eventuale assunzione di un ruolo di guardaciurme da parte di uno strato di detenuti dei gulag non metterebbe certo capo alla discolpa della burocrazia negriera dell'URSS. E' lecito quindi cercare di stabilire cosa effettivamente sia avvenuto nei campi. Non soltanto, di per sé, la montagna di cadaveri che ne è risultata non consente di concludere alla progettazione dello sterminio, ma altresì l'immagine che egli presentava della vita concentrazionaria, della concorrenza tra le diverse categorie e all'interno delle stesse per il controllo dell'autoamministrazione, dell'uso, non limitato da alcuno scrupolo, fatto dalla burocrazia interna dei vantaggi intuibilmente connessi di fatto a tale controllo, fornisce (insieme con la pratica del lavoro forzato prestato in condizioni alimentari, sanitarie ecc. che, inadeguate sempre, crollarono molto al di sotto del minimo vitale verso la fine del conflitto) una spiegazione <I>plausibile</I> di quel cumulo di cadaveri, indipendentemente dalla perpetrazione di sterminî. Rassinier peraltro non escludeva che episodi di sterminio si fossero verificati in determinati campi, ma li faceva risalire a iniziative di autorità periferiche che sarebbero state prese all'insaputa delle autorità centrali; d'altro canto queste, una volta conosciutele, sembrerebbe siano intervenute per vietarle (11). Ciò che egli contestava era l'esistenza di una volontà e di un piano di sterminio e quindi l'esistenza di campi creati a tale scopo, l'esistenza di camere a gas come dotazione dei campi passati alla storia come destinati allo sterminio, l'ammontare degli ebrei morti a seguito della persecuzione hitleriana alla cifre - da 5 a 6 milioni - consacrate dagli storici del nazismo.
Fin qui ci siamo riferiti alla tesi, al singolare, di Rassinier, ma come si vede essa si articola in più tesi distinte, alla cui formulazione egli era pervenuto induttivamente e deduttivamente. Quest'ultimo procedimento gli consentì di stabilire, attraverso un serrato esame del movimento della popolazione ebraica europea dal 1933 al 1945 alla luce, si noti bene, dei più autorevoli rilevamenti statistici di fonte ebraica o sionistica antecedenti e successivi alla guerra, e alla luce altresì dei dati recepiti dalla sentenza del tribunale di Gerusalemme che condannò Eichmann, che "un minimo di 4.416.108 ebrei" calcolati come sterminati sarebbero in realtà riusciti a "lasciare l'Europa tra il 1931 e il 1945" (12) e che quindi gli ebrei d'Europa morti per le persecuzioni naziste, in campo di concentramento o in diverso modo (13) scenderebbero dai 6.009.400 dichiarati dal Centro mondiale di documentazione ebraica, a 1.593.292 (e a 1.003.392 prendendo come base di calcolo i 5.419.500 dichiarati da Raoul Hilberg, The Destruction of the European Jews, 1961) (13bis).
In questo risultato egli ravvisava una conferma delle sue vedute circa gli obiettivi propostisi dalla persecuzione nazista e i modi in cui questa si sarebbe concretata. Che essa non abbia fin da principio puntato all'eliminazione fisica degli ebrei é cosa sulla quale l'accordo é generale. L'obiettivo iniziale era di promuovere vessatoriamente l'esodo di quello che, in Germania, presentava ancora caratteri distinti di gruppo sociale (14). Lo scoppio del conflitto non modificò questo obiettivo se non in senso quantitativo: judenfrei [libero dai giudei] avrebbe dovuto diventare l'intero territorio sottoposto all'imperialismo germanico. E' noto il progetto Madagascar. Per Hitler e consorti, la sconfitta delle potenze democratiche avrebbe comportato la sconfitta di quella "Internazionale giudaica" nella quale, con enorme distorsione della realtà delle cose e con enorme sopravvalutazione del ruolo e del peso del movimento sionistico, essi identificavano l'occulta ispiratrice della politica di tali potenze. Quando, il 30 gennaio 1939, Hitler parla al reichstag di "annientamento della razza ebraica in Europa" come risultato di un'eventuale guerra, in questa dichiarazione non si può vedere niente di più di un'iperbole, del genere di quelle che fioriscono usualmente dalle labbra dei capi degli stati impegnati in una guerra o che stanno per esserlo. In realtà, dal '45 in poi sembra impossibile vedervi qualcosa di diverso da un preannuncio di sterminio soltanto perché la "verità" affermatasi a seguito della sconfitta tedesca é che, successivamente a tale dichiarazione, lo sterminio avrebbe effettivamente avuto luogo. Ma come conciliare il carattere ufficiale e pubblico del preteso preannuncio (alla data del quale gli ebrei rinchiusi nei campi ammontavano a 3000) con l'impossibilità di esibire - tra le tonnellate di documenti, non di rado molto riservati, rinvenuti negli archivi del Reich, archivi che per lo più sono stati esplorati in vista di reperirvi pezze d'appoggio per l'accusa nei processi seguiti alla guerra - ordini di sterminio impartiti dalle autorità centrali? E' veramente sostenibile che queste ultime, dopo un così clamoroso preannuncio - del quale si vuole vedere una conferma nelle minacce lanciate dallo stesso Hitler nel discorso tenuto allo Sport Palace il 30 settembre del '42 -, si limitassero prudentemente a sussurrare le relative disposizioni all'orecchio delle autorità periferiche e che, a loro volta, queste le trasmettessero nello stesso modo per decrescente scala gerarchica fino a farle giungere agli esecutori materiali?
Eppure, é questo uno dei presupposti su cui poggia l'intera impalcatura della storiografia sterminazionistica. Nondimeno, la fragilità di tale base non darebbe il diritto di revocare in dubbio la veridicità della versione corrente se all'interno di questa non si cogliessero elementi di contraddizione la cui entità pare tale da infirmare la solidità delle strutture portanti di quell'impalcatura. Ma qui é indispensabile una precisazione.
Non sarà sfuggito al lettore che, nell'esporre come abbiamo fatto le principali asserzioni di Rassinier, ci siamo generalmente attenuti all'uso del condizionale. Il significato di ciò dovrebbe essere palese. La nostra posizione non é quella di chi abbia senz'altro sposato la tesi "revisionistica". Noi ci siamo limitati a constatare la plausibilità di questa tesi considerata nelle linee generali, la sua capacità di proporre un quadro del fenomeno concentrazionario che ci sembra persuasivo, in quanto atto a dare, degli esiti di quel fenomeno una spiegazione che - mentre tiene presenti da un lato la fame di lavoro nel Reich, il vantaggio derivante all'imperialismo tedesco dall'estorsione di lavoro schiavo, gli stessi precedenti orientamenti verso una "soluzione" migratoria della questione ebraica, dall'altro lato la micidiale dinamica indotta tra i detenuti da una situazione crudelmente concorrenziale aggravata dagli abusi di cui si é accennato - tende ad escludere il male allo stato puro, l'improbabile protagonismo sulla scena storica degli aspetti deteriori e più oscuri della soggettività. Con tutto ciò, né ci siamo occupati di prima mano della questione, compulsando documenti originali, facendone la critica, confrontando testimonianze e statistiche ecc., né, pensiamo, lo abbia fatto qualcuno dei nostri lettori. Lo hanno fatto, a quanto sembra, Rassinier da una parte e dall'altra gli storici sterminazionisti. Ora, Rassinier é stato bruciato (al punto che non c'é scribacchino della stampa democratico-borghese che, dovendosi riferire a lui - e facendolo, ci si può scommettere, nove volte su dieci senza aver mai visto neppure la copertina di un suo libro - non ne parli come di un venduto ai nazisti), ma sicuramente non é stato confutato. Da che mondo é mondo, gli insulti e le insinuazioni rivolte al contraddittore, lo stravolgimento delle sue posizioni, l'ospitalità negata alle sue risposte da parte di quella stessa stampa che presentava una caricatura dei suo argomenti; magari, come per Faurisson, la pretesa di seppellire questi argomenti sotto cumuli di firme più o meno illustri apposte in calce ad assiomatiche dichiarazioni di condanna o, alternativamente, la congiura del silenzio, l'estromissione dal posto di lavoro, tutto questo non ha mai confutato nessuno.
Secondo Rassinier, dunque, ad essere gonfiato non sarebbe stato solo il numero dei morti ebrei, bensì il numero dei morti nei campi in generale. Egli menziona il caso dei francesi. A Norimberga il procuratore generale Dubost, che vi rappresentava appunto la Francia, il 29 gennaio 1946 aveva dichiarato: "I censimenti ai quali abbiamo proceduto in Francia, permettono di affermare che vi furono più di 250.000 deportati dalla Francia; solamente 35.000 sono rientrati. Il documento F 497 depositato sotto il numero RT 339, indica che dei 600.000 arresti ai quali hanno proceduto i tedeschi, 350.000 avvennero in vista di un internamento in Francia e in Germania. Numero totale dei deportati 250.000. Numero dei deportati rientrati 35.000" (Rendiconto dei dibattiti, t.VI, p. 338). Vale a dire: morti l'86%, sopravvissuti il 14%. Passano sedici anni ed ecco che, il 24 febbraio 1962, il ministro francese degli ex-combattenti e vittime di guerra, "a una domanda rivoltagli a questo proposito da un deputato... rispondeva come segue, a mezzo del Giornale Ufficiale... (Dibattiti parlamentari, p. 229): "Secondo le informazioni statistiche rilevate in data 1 dicembre 1961 dallo schedario meccanografico dei deportati e internati di guerra 1939-1945 redatto dall'Istituto Nazionale di Statistica e degli studi economici, il numero delle carte consegnate ai deportati e internati o ai loro eredi ammonta a:
Su un totale, quindi, di 49.135 deportati, il totale dei morti era di 19.018 unità, i superstiti 30.117 unità. Morti: 38%, superstiti: 62%, al 24 febbraio 1962.
Commentava Rassinier: "Evidentemente, prendendo questi dati come base, é assai difficile determinare l'esatto numero dei superstiti e dei morti all'8 maggio 1945: rientrati dai campi, dopo avervi fatto un più o meno lungo soggiorno, i superstiti rappresentavano una popolazione debilitata nella quale il coefficiente di mortalità annuale é evidentemente superiore, molto, al normale. Non mi sorperenderei se mi si dicesse che 19.018 mancanti al 24/2/1962, dal 35 al 45% sono morti dopo il loro ritorno. In questo caso, allora, bisognerebbe ammettere che all'8 maggio 1945 le proporzioni erano le seguenti: dal 75 all'80% di superstiti che si deducono dalle cifre esibite a Norimberga dal Procuratore Dubost, tanto lontane che si tratta quasi di proporzioni inverse!" (15).
Non si tratterà di un caso emblematico? Con l'indicarlo Rassinier recava un preciso argomento, la macroscopica contraddizione che emerge dal confronto di due fonti di pari ufficialità. Questi dati, sono una sua invenzione? Li ha alterati? Ha alterato le relative citazioni? Ha giocato sull'equivoco? Se così fosse, niente di più facile da dimostrare: basta risalire ai testi che egli cita. Vi si risalga e, se dovesse risultare che in un qualsiasi modo egli ha ingannato i suoi lettori, lo si inchiodi alla sua responsabilità di falsario, se ne infami la memoria. Non si vede, del resto, perché non lo si sia fatto lui vivo. Ma esimersi da questa verifica - così agevole e, sullo specifico punto, così conclusiva -, ed esimersi da ogni altra verifica cui la sua tesi potrebbe, e dovrebbe, venir sottoposta e dichiarare il vecchio socialista, pacifista, resistente un agente dell'internazionale nera significa soltanto fare uno sfacciato assegnamento sulla procurata disinformazione del pubblico.
E ancora, tanto per fare un altro esempio sui procedimenti di calcolo: noi non sappiamo se corrisponda a verità ciò che diceva Rassinier circa il modo in cui lo Hilberg cercherebbe "di dimostrare che 1,4 milioni di ebrei sono stati eliminati [fuori dai campi] dai gruppi speciali; ma, se é vero che, dopo aver utilizzato tutti i suoi mezzi di prova...gli mancano sempre 500.000 cadaveri per ottenere il suo totale; e allora tranquillamente ne aggiunge di autorità 250.000 per "omissione", e altri 250.000 per lacune nelle nostre fonti" (16); se é vero questo, proclamare Rassinier al soldo dei nazisti non sarà molto convincente; sarà assai più calzante dimostrare che da procedimenti del genere possa risultare sul serio un calcolo attendibile.
E così per il problema delle camere a gas. Rassinier e Faurisson dopo di lui, l'hanno affrontato da due fondamentali punti di vista: quello della critica delle fonti in genere e quello della sostenibilità delle presunte testimonianze intorno alle gassazioni di massa alla luce delle occorrenze tecniche indispensabili per realizzarle. Sotto entrambi i riguardi ci limitiamo a un semplice rinvio ai loro testi. Ma, pur se non crediamo di tentarne una sintesi (la quale anche nel più felice dei casi non potrebbe suggerire se non un'idea eccessivamente impoverita delle argomentazioni), non possiamo non ricordare come nell'affermazione dell'esistenza e dell'impiego delle camere a gas, assurte a simbolo di sterminio pianificato, abbiano giocato un ruolo difficilmente sopravvalutabile interessi che, per la loro vastità e la loro natura. superano largamente quelli particolari del sionismo. Si rifletta sul fatto che la carta d'Europa quale la vediamo oggi [1981] con la Germania divisa in due parti, la città natale di Kant incorporata nel territorio dell'URSS, i confini polacchi spostati verso occidente, le minoranze tedesche dell'Europa orientale cacciate dalle sedi occupate da secoli - e quindi l'equilibrio europeo quale si é costituito in seguito all'ultima guerra resterebbero incomprensibili senza una permanente criminalizzazione, al di là del nazismo, del germanesimo. Va da sé che, in una fase in cui ciascuno dei due stati tedeschi é il principale puntello in Europa del blocco di rispettiva appartenenza, questa criminalizzazione sia destinata a restare sotterranea e, per così dire, implicita. Era inevitabile che risultasse palese ed esplicita durante e dopo una guerra in cui l'imperialismo tedesco si era rivelato il più forte tra quelli del continente; ed esplicita doveva risultare anche indipendentemente dalle inaudite sofferenze recate, in special modo alle popolazioni dell'Europa orientale, sia dalla durezza del dominio tedesco, sia da una vicenda bellica che, in linea di fatto, vedeva il Reich agire da aggressore.
Che pensare, dunque, delle camere a gas? Si noti bene: Rassinier non mancò di dichiarare che la sua documentazione non gli permetteva "di sostenere che non vi erano state distruzioni a gas, se [= né] l'aveva mai preteso" (17) e dice, anzi, di credere che massacri siano avvenuti (18). Ma camere a gas sono state "viste" in campi in cui é pacificamente riconosciuto che non ve ne sono state mai. In qualche caso esse sono effettivamente visibili oggi; e questo é ammesso, sia pure a denti stretti, anche da chi si scaglia contro la tesi rassinieriana (19). Ma, e le confessioni? Quando non si rinunci programmaticamente ad ogni senso critico, le confessioni appaiono molto meno risolutive di quanto si sia portati a pensare. Se Rassinier considerava inattendibili per la loro origine e, spesso, irrimediabilmente contraddicentisi a vicenda quelle rilasciate da appartenenti alle SS, talora in circostanze che lasciano adito a qualcosa più che un sospetto in ordine alle possibilità che siano state estorte con pressioni fisiche, talaltra in circostanze che sembrano lasciar trasparire che tra inquisitori e inquisiti sia avvenuta una contrattazione avente per posta la vita; in tutti i casi, in condizioni che comportavano una profonda prostrazione psicologica dei secondi, sopravvissuti ad una causa inappellabilmente perduta e disposti, per salvarsi, a confessare ciò che si voleva e ci si aspettava da loro (anche l'esistenza di camere a gas là dove si é appurato che non sono esistite); se Rassinier esponeva la singolarissima storia di quella pietra miliare nella formazione della "verità" ufficiale sulle camere a gas e le gassazioni di massa che é la confessione di Kurt Gerstein (20), il dubbio che egli fa sorgere non può venire esorcizzato accusando lui, Rassinier, di avere agito da complice dei carnefici e di aver proseguito l'opera di quel Kommando 1005 cui Himmler avrebbe affidato il compito di far scomparire, mano a mano che le truppe nemiche avanzavano, ogni traccia dello sterminio. Del resto, non vi é stato un tempo in cui, a migliaia, "confessavano" persone accusate di stregoneria? Non hanno "confessato" anche i vecchi bolscevichi eliminati con i mostruosi processi di Mosca? Per crederli innocenti di ciò di cui si autoaccusavano non abbiamo avuto bisogno che parlasse il "ventesimocongressuale" Kruscev. Giustamente, La Guerre sociale ricorda con Bukharin che la confessione é un principio giuridico medievale. Quale che sia la distanza che, sotto ogni profilo, corre tra quei grandi nostri compagni e gli sgherri nazisti, perché mai questo dovrebbe valere solo per i primi e non anche per i secondi? Non si tratta di credere all'innocenza dei piccoliborghesi declassati delle SS o a quelli del barbarico regime che li costituiva guardiani di schiavi. E neanche si tratta, in primo luogo, di crearsi una nozione obiettiva delle colpe effettive degli uni e dell'altro. Si tratta, invece, di capire quali fattori, dopo aver impedito questa nozione per molti anni, la rendano ancora oggi quasi impossibile.
NOTE
1) P. Rassinier, L'Opération "Vicaire". Le rôle de Pie XII devant l'Histoire, La Table ronde, Paris 1965, 263-266.
2) Anche in Italia Rassinier é stato pubblicato da case editrici di estrema destra. Si tratta di traduzioni alquanto rozze.
3) Rassinier, Le Drame des juifs européens.
4) Rassinier, La menzogna d'Ulisse.
5) Ibidem.
6) "De l'exploitation dans les camps à l'exploitation des camps", in La Guerre sociale, n.3., s.a. (1979), p. 14. E' dallo stesso articolo che riportiamo la frase di Rassinier sulla sua fedeltà ai principî della sinistra del 1919. L'articolo de La Guerre sociale non é il primo segno di interesse per la tesi rassinieriana proveniente dalla sinistra rivoluzionaira. Se ne occupò a lungo, all'incirca tra il 1962 e il 1968, un luxemburghiano tedesco, Willi Huhn (1909-1970), ma ignoriamo se abbia pubblicato qualche scritto sull'argomento. La casa editrice La Vieille Taupe (B.P. 9805, 75224 Paris Cedex 05) ha ristampato Le mensonge d'Ulysse e ha pubblicato, di Faurisson, Mémoire en défense, libro intorno al quale si é fatto molto rumore a causa della prefazione di Noam Chomsky, prefazione che il celebre linguista americano sembra abbia tentato in extremis di non far pubblicare, spaventato evidentemente di essersi lasciato andare ad affermare il diritto di Faurisson a sostenre le proprie vedute sui lager senza essere privato del proprio posto di "Maître de conférences" all'Università di Lyon 2. Sono passati i tempi in cui un Engels poteva trovare da ridire sul fatto che il governo prussiano togliesse la cattedra a Eugen Dühring!
Detto questo, bisogna sottolineare che sarebbe arbitraria ogni pretesa di identificare senz'altro la posizione di Rassinier con quella di Faurisson, anche se quest'ultima sarebbe impensabile senza il precedente rassinieriano. Nel momento in cui scriviamo non ci é ancora noto il libro di Faurisson ma solo la lunga intervista che questi ha rilasciato ad A. Pitamitz e che é apparsa - sotto il titolo "Le camere a gas non sono mai esistite!" - in Storia illustrata, agosto 1979. Nel fascicolo successivo il mensile mondadoriano ha pubblicato una diffusa replica di E. Collotti, docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna, e infine, nel fascicolo di ottobre, si é avuta una controreplica di Faurisson. Questi, dunque, nega in toto le stragi di ebrei e asserisce che la mortalità globale dei campi non avrebbe oltrepassato un massimo di 360.000 unità per l'intero dodicennio nazista e che probabilmente, anzi, sarebbe rimasta a livelli assai inferiori a questa cifra. Da notare che Faurisson non fa alcun cenno al ruolo - fondamentale, come sappiamo, per Rassinier - che sarebbe stato svolto dall'autoamministrazione.
D'altro canto Faurisson sembra aver studiato a fondo gli aspetti tecnici della questione delle gassazioni di massa; ed é un fatto che, alla sua dimostrazione - se tale é - che, così come sono state descritte, le gassazioni non possono essere avvenute e che, così come sono state descritte e così come vengono oggi mostrate, le camere a gas non possono essere camere a gas, Collotti non risponde proprio nulla.
7) H. Hoehne, L'ordine nero. La storia delle SS, Garzanti, Milano 1977, p. 211. Non si dimentichi che Auschwitz rappresentava, con i suoi tre campi principali e i suoi 40 campi secondari, una grossa concentrazione industriale e agricola. Ai vari rami di attività erano addetti, oltre che i detenuti (ad eccezione sembra degli zingari) anche lavoratori "liberi". Vi esistevano corsi di formazione professionale per giovani dai 12 ai 15 anni. D'altro canto, risulta per certo che detenuti la cui pena era giunta al termine ne sono stati dimessi (così Faurisson, interv. cit., passim). Pare alquanto problematico conciliare tutto ciò con la tesi sterminazionistica e, in particolare, con l'asserita segretezza di cui le autorità naziste avrebbero circondato le macabre operazioni.
7bis) Da più autori é stato rilevato quanto scarso risultasse il numero di guardie SS addette ai campi relativamente alla massa dei detenuti. Ciò si spiega col fatto che la gran parte dei compiti di sorveglianza sarebbe stata svolta dal personale dell'autoamministrazione.
8) Mensonge, cit.
9) Drame, cit.
10) Mensonge, cit.
11) Drame, cit.
12) Drame, cit. Per andare dove? Rassinier, che in alcune notevoli pagine indica le grandi linee di diffusione delle comunità ebraiche cominciando dai tempi biblici, mostra come soprattutto dal principio di questo secolo, la meta principale del flusso migratorio ebraico proveniente dall'Europa centrale e orientale, siano stati gli USA. Già nel 1926 la comunità ebraica nordamericana, con le sue 4.461.184 anime, era aumentata di 20 volte in un cinquantennio (1877: 230.000 anime; 1896: 475.000),venendo a rappresentare, "in rapporto all'importanza mondiale, proporzionalmente di gran lunga il più forte contingente" di immigrati. Ebbene, "le prime misure prese dagli Stati Uniti per "contingentare" l'immigrazione nelle proprie terre (1901-03)... fanno apparire quella degli ebrei, come clandestina nella quasi totalità dal 1906 al 1926... specialmente dal 1945 essa non fu meno clandestina benché le misure di controllo sull'immigrazione prese nel 1924 venissero rafforzate...ma...praticamente non furono mai applicate dati gli avvenimenti di cui in Europa furono vittime gli ebrei, benché ufficialmente in teoria essi non vi fossero stati mai sottratti." "E ciò torna a onore dell'America", commenta colui che ci si vuole raffigurare come un apologeta del nazismo.
Nel dopoguerra, e almeno fino al tempo in cui usciva Le Drame des juifs européens (1964), l'esatto ammontare degli ebrei in USA si presentava come assai controverso. Contro statistiche di fonte ebraica che lo fissavano, nel 1947, a 5.185.000 o 5.260.000, sta un'informazione, riferita da Rassinier come "di fonte ebraica anche questa", che dava 8.667.000 anime per il 1962, cifra che confermerebbe l'affermazione sionistica secondo cui i 2/3 degli ebrei del mondo vivrebbero negli USA, ove si prendesse per buona l'indicazione di 12.299.780 anime date dal World Almanach 1959. Senonché, in pari data, l'Almanacco di Israele (5719 era ebraica, 1958-59 a.d.) forniva dati da cui era possibile dedurre, per l'ebraismo mondiale, le cifre di 14.400.000 e di 16.000.000 di anime: differenze, come si vede, di entità tutt'altro che trascurabile e tanto più significative se poste in rapporto con il calcolo rassinieriano dell'effetiva mortalità ebraica er cause connesse alla persecuzione nazista.
Ora, "avendo gli Uffici della popolazione degli Stati Uniti deciso di organizzare un censimento nel 1960 per stabilire l'importanza dell'immigrazione illegale [in generale, non di quella ebraica soltanto] della quale si sentivano vittime, tutte le organizzazioni sioniste mondiali avevano immediatamente protestato (e con successo, precisava l'American Mercury) nel caso che gli incaricati si rivolgessero alle chiese (dunque alle sinagoghe), allo scopo di ottenere da quelle il numero dei loro amministrati... Palese la ragione di questa opposizione: tale censimento operato in simile maniera avrebbe messo in evidenza l'importanza dell'immigrazione ebraica negli USA dopo il 1933, e avrebbe immediatamente annientato il mito dei 6 milioni di sterminati."
13) Drame, cit.
13bis) Quanto alle vittime sionistiche del dopoguerra relative alle vittime della persecuzione hitleriana, l'accenno alla loro "autorevolezza", va inteso, naturalmente, non come un giudizio di valore ma come una constatazione di fatto: come, cioé, se si dicesse soltanto che passano per essere autorevoli. Tali però cesserebbero di apparire se venissero seriamente confrontate fra loro. Le discrepanze insanabili emergenti tra le statistiche del Centro mondiale di documentazione ebraica (Poliakov) da un lato e quello dello Hilberg e della Arendt dall'altro (per il primo, ad esempio, i morti di Auschwitz sono 4 milioni, per i secondi un milione!) sono poste in luce in Drame, passim.
14) Sulla questione ebraica si veda l'ottimo studio di un militante trotzkista morto nei lager, A. Leon, Il marxismo e la questione ebraica, con prefazione di N. Weinstock, Samonà e Savelli, Roma, 1968. Fondamentale una parte dei lavori compresi in Il marxismo e la questione ebraica, testi scelti presentati e annotati da M. Massara, Ed. del calendario, Milano 1972. Il curatore - uno che vanta la sua iscrizione al PCI nei giorni dei fatti d'Ungheria - dedica 70 pagine a scritti di Stalin e ignora Trotzky, quattro prese di posizione del quale sono state poi pubblicate da U. Caffaz, Le nazionalità ebraiche, Vallecchi, Firenze 1974, 101-108.
15) Drame, cit.
16) Ibidem.
17) Ibidem.
18) Mensonge, cit.
19) "Che non ci siano state camere a gas in tutti i campi di concentramento, anche dentro alcuni di quelli dove si pretende di mostrarle ai pellegrini o ai turisti, é un fatto che riconoscono gli specialisti e i testimoni diretti" (J. Planchais, in Le Monde, 19 gennaio 1979, cit. da La Guerre sociale).
20)©re", cit. 38-48; più ampiamente Drame, dove vengono presentate sinotticamente due versioni francesi, pretese originali, del documento Gernstein, entrambe pubblicate dal Poliakov. Da rilevare che questo stesso storico sterminazionista ne aveva, al 1964, pubblicate altre due versioni (una comprendenti "interi paragrafi che non figurano nella prima e nella seconda", oltre ad altri paragrafi "in contraddizione in numerosi punti tanto con l'una che con l'altra". Dallo stesso Poliakov si apprendeva, nel '64, che la versione originale ("quale?" si domanda Rassinier) "é scomparsa dal deposito centrale degli archivi della giustizia militare francese" insieme al "all'incartamento dell'istruzione aperta [su Gerstein], nel 1949, dalla Spruchkammer di Tubinga". "Lo strabiliante [scriveva Rassinier] é che Poliakov se ne accorga dopo averne dato tre versioni e che ciò non lo dissuada dal fornircene una quarta".
Va notato che nel documento Gerstein gli elementi di incredibilità abbondano. La gassazione ivi descritta, ad esempio, sarebbe stata eseguita su 7-800 persone stipate in 20 o 25 metri quadrati di superficie: una densità, cioé, minima di 28, massima di 40 persone per metro quadrato! Nessuno poi si é mai sentito di sostenere l'attendibilità della valutazione del numero totale di vittime dei lager offerta da tale documento: 25 milioni!
POSTCRIPTUM
La lettura di Mémoire en défense, successiva - cfr. nota (6) - alla stesura del presente articolo consentirebbe di estendere considerazioni svolte nel testo riguardo a Rassinier anche a R. Faurisson. Chi qui scrive non è in grado di giudicare quanto solidi siano gli argomenti di carattere tecnico che questi avanza per sostenere l'impossibilità delle gassazioni di massa ; ma constata che i contradittori del publicista francese, invece di contestatre la sua tesi dimostrando come essa non si regga sul terreno sul quale egli l'appogia, preferiscono (ciò che è, senza dubbio, più comodo) proclamarla a priori un cumulo di insensatezze dirette contro qualcosa che sarebbe evidente di per sé : quasi che non fosse in questione proprio questa pretesa evidenza. Tipici, in proposito, gli articoli di Rosellina Balbi in La Reppublica, 10 e 24 febbraio. Resta da vedere fino a che punto si potà contare su quell'ottundimento del senso critico del pubblico che è l'obbiettivo permanente della stampa borghese di ogni colore.
Pour la bonne bouche : la Licra (Ligue internationale contre le racisme et l'antisémitisme), un'associazione che ha promosso contro Faurisson l'azione legale in vista della quale questi ha dato alle stampe il libro sopra citato, se la prende anche con Shakespeare par via del Mercante di Venezia et con l'attore che ha interpretato la parte di Shylock nell'adizione a cura du Jean Anouilh mandata in onda dalla TV francese il 14 giugno dell'anno passato ! Si veda Le Monde, 5 luglio 1980 (riportato in Mémoire, 238). A quando un'iniziativa per eliminare dalle biblioteche pubbliche la Questione ebraica di Karl Marx ?
L'indirizzo electonico (URL) de questo documento è: <http://aaargh-international.org/ital/arrass/SALnoteRass.html>